La teologia tra necessità del dialogo interreligioso e crisi della metafisica

EventiLa teologia tra necessità del dialogo interreligioso e crisi della metafisica

di Massimo Naro

Riceviamo e pubblichiamo

Viviamo in un’epoca che ─ nell’immaginario collettivo e nel fondo delle coscienze ─ ha la sua icona principale nella Rivoluzione francese, allorché l’ideale della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità è stato gridato ai quattro venti, mentre si affermava definitivamente una radicale svolta storica (culturale e a suo modo religiosa, ancor prima che politica): l’evento e l’avvento della secolarizzazione. L’ideale della fraternità e dell’uguaglianza tra gli uomini si è perciò accompagnato, lungo tutta la tarda modernità – nella quale ancora stiamo vivendo – con la rivendicazione della libertà, che proprio nella prospettiva della secolarizzazione è stata intesa anche e soprattutto come affrancamento dalle convinzioni religiose e come autonomia dalle prescrizioni religiose: in definitiva, come autonomia dalle immagini che di Dio le religioni per secoli, prima, avevano proposto, ciascuna secondo forme ed espressioni peculiari, ipotecando talvolta il volto di Dio con i cangianti riflessi del volto degli uomini e, di conseguenza, dimenticando che dovrebbero essere gli uomini ad assomigliare a Dio e non viceversa.

Forse non è arbitrario pensare che la secolarizzazione moderna e contemporanea sia l’esito “saturo” di quello che – ancor prima e più che un perdurante stato di crociata o di jihad – è stato un plurisecolare conflitto di interpretazioni, di concezioni, di visioni riguardo a Dio.

È forse avvenuto su scala globale ciò che racconta un apologo buddhista a proposito di un marajà che – un giorno – radunò presso la sua corte un gran numero di ciechi nati e fece toccare loro, in diversi punti del suo corpo, un enorme elefante, dichiarando nel frattempo, solennemente, che “un elefante è così”. Ci fu chi toccò la coda dell’elefante, ci fu chi ne toccò la testa, o l’orecchio, o le zanne, o la proboscide. Alla fine il marajà chiese ai ciechi di dirgli come fosse l’elefante che avevano toccato. E tra la confusione, presto degenerata in parapiglia, ciascuno dei ciechi disse che l’elefante è come una scopa, o come un muro, o come un grande ventaglio, o come la barra di un aratro, o come una lunga pompa. L’elefante è così, non è così…

La modernità occidentale, secolarizzandosi, si è voluta come immunizzare da questa confusione, scegliendo la via dell’agnosticismo e oggi, in un orizzonte culturale ormai ipotecato dal relativismo, il confronto tra le religioni è considerato dagli osservatori alla stregua di una disputa tra ciechi nati.

Nondimeno le religioni non sono scomparse dall’Occidente post-moderno: esse “rimangono” e, anzi, come ci dicono gli studiosi che si dedicano a questi temi, “ritornano”. Anche se, reduci dal crogiolo “secolare”, non hanno più i connotati dottrinali, gli assetti istituzionali, le spinte ideali che aveva prima.

Tra i fattori costitutivi dell’esperienza religiosa, oggi, in età post-secolare (come diciamo dacché Habermas ha formulato questo termine), sembra mancare soprattutto la compagnia che la ragione umana prima garantiva alla fede in Dio, dando luogo a tradizioni teologiche e filosofiche che hanno di fatto disegnato l’identità culturale dell’Occidente stesso. Il convegno sul “filosofare per le religioni nell’età post-secolare”, che in questi giorni si tiene presso la Facoltà Teologica di Sicilia, a Palermo, si propone, per l’appunto, di recuperare i tratti peculiari di quella complessa identità, sorta dal confronto e non dallo scontro fra i tre monoteismi che hanno avuto la loro culla nel Mediterraneo, per verificare la possibilità di trovare per essa nuovi sviluppi che mettano al riparo le future generazioni ─ e noi stessi ─ dagli eccessi fondamentalistici che esitano dall’innaturale isolatezza in cui la fede per un verso e la ragione per l’altro rischiano oggi di rimanere relegate, allorché finiscono per separarsi ed esautorarsi a vicenda.

 

1. All’alba dell’età post-secolare

 

Il punto da cui iniziare i lavori di questo nostro convegno è la “notizia” che i sociologi ci hanno dato in questi ultimi anni: le religioni in Occidente non si sono estinte, ancorché siano state progressivamente, nei secoli scorsi, con ritmi sempre più incalzanti, ridotte ai margini della sfera pubblica, costrette tutte a rinunciare alla rilevanza politica ed etico-normativa che prima lungamente avevano avuto. Ragionando su questo fenomeno di persistenza, o di reviviscenza, Jürgen Habermas ha cominciato a parlare, nel crinale tra XX e XXI secolo, di un’età post-secolare, intendendola non come una de-secolarizzazione ─ termine che altri osservatori, come per es. Peter Berger, pure preferiscono usare ─ e men che meno come una restaurazione degli assetti sociali pre-secolari (pre-secolarizzati), piuttosto come un oltrepassamento della secolarizzazione, in una inedita congiuntura culturale in cui la secolarizzazione stessa non è più una situazione di fatto chiara ed evidente e nemmeno l’unico destino pronosticabile per il prossimo futuro, e in cui emergono nuove forme de-istituzionalizzate e spiritualizzate di religiosità che, d’altra parte, non compensano i vuoti e gli scompensi causati dal ridimensionamento effettivo delle grandi religioni.

La situazione, così, diventa sempre più complessa e proprio quando Charles Taylor propone ─ in una grandiosa sintesi sistematica ─ la sua compiuta filosofia della secolarizzazione, c’è chi preconizza la «fine della teoria secolare». Se è vero ─ ha spiegato dal canto suo Gustavo Zagrebelsky ─ che nella modernità occidentale la vita sociale, nelle sue varie espressioni relazionali, politiche, economiche, tecniche, a livello teorico s’è gettata alle spalle le premesse metafisiche a cui erano ancorate le grandi visioni religiose del mondo, è altrettanto vero che permane un senso concreto di insoddisfazione che spinge chi vive nell’età post-secolare a rivolgersi ancora alle religioni per invocarne di nuovo le prestazioni comunitarie e gli interventi pubblici che già in passato esse avevano offerto e di cui oggi altre istanze sociali non riescono a garantire. In questo trend non sono coinvolti soltanto sporadici e inguaribili nostalgici. Si tratta di un bisogno sempre più diffuso, che spinge chi lo prova a uscire dalla dimensione privata e persino intimistica in cui nel regime di secolarizzazione sono generalmente vissute la fede e le credenze religiose, per comunicare con gli altri proprio a livello religioso, spesso con le risorse di inopinati linguaggi testimoniali. Quanto tutto ciò sia vero su vasta scala è dimostrato meglio che dalle indagini sociologiche da alcuni insistenti fenomeni di massa, come quello impersonato ─ per esempio ─ dal cantante irlandese Bono (Paul David Hewson), leader degli U2, figlio di padre cattolico e di madre protestante, che dopo essersi allontanato per tanto tempo da ogni tipo di pratica religiosa e da ogni tipo di appartenenza confessionale, non ha potuto infine fare a meno di lasciar spazio alla sua memoria credente nella propria produzione musicale, con brani diventati famosissimi come 40, che altro non è che la rivisitazione del salmo 40, con tutto il groviglio di invocazioni e di interrogativi radicali che in quella pagina biblica sono raggrumati.

 

 

2. Comprenderci per comprendere

 

L’età post-secolare non è, però, soltanto il tempo dei grandi concerti celebrati come fossero liturgie. E non è soltanto il tempo in cui le religioni si “ammeticciano” di fatto tra di esse. È anche il tempo in cui l’afflato poetico degenera in irrazionalismo: l’epoca in cui rigurgitano fondamentalismi di varia matrice e in cui, al limite, la razionalità stessa degrada a calcolo stragista per nuove guerriglie di religione.

Rimane, perciò, nell’età post-secolare, il bisogno e anzi l’urgenza di ricomprendere e di riesperire la pluralità delle concezioni e delle visioni di Dio non come motivo di scontro, bensì di incontro. È a questo nuovo e sano pluralismo che punta il cosiddetto dialogo interreligioso ed è in questo “senso” (in questa “direzione”) che le religioni debbono tornare ad essere considerate e vissute nel nostro mondo come occasioni di confronto.

Non è una cosa facile, giacché al dialogo interreligioso appartiene per sua stessa natura un’indole controversa, che da una parte lo configura come amichevole colloquio e dall’altra parte – costringendolo a passare attraverso l’inevitabile crogiolo del confronto con gli “altri” – può trasformarlo in polemica. Come avviene già a livello semantico quando si traduce il termine greco nel suo corrispettivo latino: il dialogo – inteso e praticato come proiezione di sé e del proprio “mondo” in un altro orizzonte concettuale, in un’altra tradizione dottrinale, in un’altra sensibilità culturale, in un altro universo valoriale – rischia, talvolta, di cambiare i propri connotati, diventando diverbio. Sotto questo profilo, il dialogo interreligioso è al contempo una ineludibile necessità e una semplice possibilità: lo si deve tentare, perché non rimane ragionevolmente altro da fare; ma esso può incepparsi e fallire per mille motivi.

Per dargli un’ulteriore possibilità di buona riuscita, dovremmo tutti capire che nel dialogo non si tratta di accettare acriticamente ciò che di diverso pensano gli altri, ma di accettare che gli altri possano pensare diversamente. Questa consapevolezza, da acquisire e sviluppare continuamente, non ci proviene dalla parola d’ordine lanciata da un qualsiasi guru della comunicazione (come Steve Jobs: Think different), ma dall’indole stessa delle autentiche esperienze religiose. Per il cristianesimo, ad esempio, si deve addirittura ammettere l’impossibilità di pensarsi senza l’altro, se consideriamo che la Bibbia cristiana si compone non solo del Vangelo di Cristo Gesù ma anche delle antiche Scritture d’Israele.

Una via utile è quella dell’ermeneutica: il dialogo si riesce a fare se ci sforziamo di comprendere gli altri e, ancor prima, se ci sforziamo di comprenderci, cioè di comprendere noi stessi, al di là degli schemi e degli stereotipi che ci inducono, di fatto, a entrare in conflitto. L’ermeneutica è uno strumento che applica la ragione umana al dirsi di Dio, non per manipolarlo o per adulterarlo, ma per metterne in luce la verità più intima, il significato meno ovvio, meno scontato, meno evidente. Mi sia permesso fare un esempio a partire da una frase di Gesù riportata dall’evangelista Luca: «Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora in poi in una casa di cinque persone si divideranno tre su due e due su tre: padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera» (12,51-52). Una frase del genere ci provoca a chiederci come sia possibile dare per buono l’annuncio successivo di Gesù, secondo cui egli viene a portarci la pace (come si legge nel vangelo secondo Giovanni: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Ma non come la dà il mondo, io la do a voi»: 14,27). Orbene, la «divisione» di cui qui si parla è diamerismón, che può significare “distinguere” al fine di poter “scegliere”: è la fatica del discernimento, è il coraggio della decisione. Dunque, nulla a che fare con la lotta contro gli altri, con la lite, con la guerra. Il dirsi di Dio, la sua sovrana Parola, non teme l’impegno razionale dell’uomo di comprenderla: al contrario, esige un tale sforzo ermeneutico, che si configura di conseguenza come un esercizio non meno fiduciale che critico della ragione, la quale accetta per l’appunto di applicarsi a qualcosa che rimarrebbe altrimenti nella sfera del paradosso. In questa prospettiva la fede stessa ─ ha fatto notare Richard Kearney nel suo libro sull’ana-teismo ─ diventa «un’arte ermeneutica interminabile» più che «semplicemente l’arte dell’impossibile».

 

 

3. Mettere in questione le immagini di Dio

 

Per riscoprire le religioni come esperienze di confronto e di incontro sarebbe bene tradurre il dialogo teorico, o il dialogo delle dottrine, in dialogo della vita.

Non voglio dire, con ciò, che le dottrine sempre e comunque dividono: questo è soltanto un pregiudizio sbagliato. Quando colgono ed esprimono almeno un bagliore della verità divina, esse si richiamano sempre a vicenda, si riecheggiano, si integrano reciprocamente. Lo Shemá, secondo cui il Signore Dio è Uno, non dissona rispetto alla Shahāda maggiore, secondo cui non c’è Dio al di fuori di Dio. E la teologia cristiana ha recepito questa fondamentale affermazione del monoteismo e dell’unicità di Dio, rielaborandola in dialogo critico con le filosofie greche e affermando da sempre che Dio è Dio, anzi, più assolutamente, che solo Dio è Dio e, di conseguenza, che solo Dio è veramente. Questa convinzione religiosa, intrecciandosi con la metafisica di matrice greca, ha costituito per tanti secoli il nerbo della cultura europea e di quella mediterranea.

Tuttavia, nella modernità la metafisica è entrata in crisi. E, venendo a mancare la sponda della metafisica, anche i monoteismi si sono trovati esposti a un fuoco incrociato di domande molto critiche, forti di una pretesa demitizzatrice che ha messo in dubbio i contenuti e persino il senso delle religioni. Queste hanno perso la loro autorevolezza culturale e il loro antico appeal morale. In un sistema intriso di relativismo non hanno più l’antico vigore: non hanno più la forza negativa di motivare le guerre sante (emblematica, a tal proposito, l’affermazione attribuita a Voltaire: «Non la penserò mai come te, ma sono disposto a dare la mia vita affinché tu esprima il tuo pensiero»); ma non hanno più nemmeno la forza di muovere critiche attendibili contro la violenza e le ingiustizie (alcune delle quali, nel Novecento, si sono dimostrate così disumane che, al fine di capirne il perché e il come mai, non si può non interpellare severamente Dio: un po’ come quell’internato ebreo che ad Auschwitz, vedendo un giovanissimo compagno a lungo penosamente agonizzante sulla forca, chiede deluso a Élie Wiesel, anche lui prigioniero nel lager: «Dov’è Dio?»). Mi ha colpito la battuta con cui si conclude un recente film di Paolo Sorrentino, interpretato da Sean Penn: This must be the place. Si tratta della frase con cui termina il diario del padre del protagonista, che da ragazzo era stato deportato proprio ad Auschwitz e che, poi, per un’intera vita era rimasto sulle tracce del suo aguzzino, un milite delle SS fuggito dalla Germania negli Stati Uniti: «Poi, durante l’inverno, anche noi – dall’altro lato del filo spinato – guardavamo la neve. E guardavamo Dio. Dio è così: una forma infinita che stordisce, bella, pigra e ferma, che non ha voglia di fare nulla. Come certe donne che da ragazzi abbiamo solo sognato». C’è qui l’eco del disincanto di chi dalla sua tradizione religiosa era stato abituato a credere nel Dio degli eserciti, in El Sadday, nel Dio della montagna, nel Dio onnipotente. Quel Dio non è sceso a combattere in difesa dei suoi: è rimasto a guardare, come uno che non ha voglia di fare nulla. Non lo si rimprovera per questo suo disinteresse. Anzi lo si scusa ancora una volta, lo si giustifica con una pietas infinita: Egli non ha fatto nulla perché non c’è mai stato, perché è stato soltanto un sogno da ragazzi. E c’è pure, nella battuta finale di This must be the place, il senso dell’irrilevanza pratica della concezione metafisica di Dio, dell’infinita forma che stordisce, bella, pigra e ferma…

Possiamo forse intendere tutto questo come l’esasperato approdo finale della «teologia dopo Auschwitz», per usare la famosa espressione lanciata – con una riflessione sviluppata tra il 1961 e il 1984 – da Hans Jonas. Questi, in realtà, muovendosi lungo una prospettiva filosofica, ha voluto rilevare le aporie intrinseche alla teodicea classica, da secoli basata sull’affermazione aprioristica delle perfezioni assolute di Dio desunte dalla metafisica. L’olocausto di milioni di innocenti consumatosi nei lager nazisti ha sottoposto la teodicea alla dura prova della storia, costringendola – secondo Jonas – a demetafisicizzarsi. Così la teologia ebraica per prima viene richiamata al suo criterio fondamentale, interno alle Scritture, che è quello dell’evenenzialità di Dio, del suo mettersi sul serio e sino in fondo in rapporto con la storia, accettandone le condizioni e i condizionamenti, giungendo persino a rinunciare a Sé nei termini illustrati da quel filone della Kabalàh che parla dello tzimtzum. In tal senso, il Dio della Bibbia d’Israele è da sempre un Dio sofferente, fin dal momento della creazione disposto a contrarsi, da allora esposto alla sconfitta, per riecheggiare un titolo di Sergio Quinzio. D’altra parte le sollecitazioni che dalla riflessione di Jonas arrivano alla teologia cristiana sono formidabili e confluiscono nella valorizzazione trinitaria della kenosi per come questa viene presentata in importanti passaggi neotestamentari quali Fil 2,6ss., e nella critica a Hegel tesa a valorizzare – ancora una volta trinitariamente – il “negativo” che il grande filosofo tedesco pure reputava costitutivo di Dio. Il «dopo Auschwitz», così frequentato, davvero impegna ogni teologia a ripensare onestamente Dio e a smarcarsi, per riuscirvi, dai tradizionali steccati religiosi e confessionali, senza più chiusure insuperabili e senza silenzi inappellabili.

 

 

4. L’assolutezza di Dio è trascesa dalla sua stessa fattualità

 

In questo senso, dunque, le religioni dovrebbero de-ideologizzarsi. Forse dovrebbero persino, in un certo senso, de-metafisicizzarsi (de-assolutizzarsi, direbbe Claude Geffré). Dovrebbero cioè riscoprire la debolezza di Dio, che scende a condividere le nostre sconfitte, a subire con noi e per noi la violenza che ci colpisce. E dovrebbero riscoprire che Egli è più che l’Essere straordinario, infinito, forte, ma immobile: Egli, come annuncia la prima lettera di Giovanni (4,8.16), nel Nuovo Testamento, «è Agape», «è Amore». Da questo nome santo di Dio deriva un comandamento che potrebbe risultare centrale per tutti i credenti (come anche gli intellettuali musulmani più lucidi e avvertiti riconoscono, per esempio nella Lettera dei 138 inviata il 13 ottobre 2007 a Benedetto XVI) e che, testimoniato sul serio, mostrerebbe il profilo pacifico di ciò che chiamiamo esperienza religiosa: «Amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,12).

Non intimorisca il termine de-metafisicizzazione: questa è ormai (sarebbe il caso di dire: di nuovo) in corso da un buon secolo, almeno in ambito cristiano ed ebraico. È interessante ed emblematico ciò che osserva Camillo Ruini nella sua recente Intervista su Dio: «[…] tutti i percorsi razionali che cercano di arrivare a conoscere Dio implicano un passo, o un passaggio, “metafisico”, nel senso che ci conducono al di là della nostra esperienza e non sono direttamente verificabili attraverso di essa». Questa osservazione rimanda a un dato di fatto. Ma, a mio parere, segnala anche il rischio di derubricare la dimensione esperienziale, con tutte le sue implicazioni simboliche capaci di rivelare legami “tra”, di richiamare al rapporto “con”, di indurre a riconoscere indizi e tracce della presenza divina nella vita dell’uomo. Rispetto a tale rischio, de-metafisicizzare l’esperienza religiosa significa sottrarla a una oggettività soltanto concettualmente intesa: oltre la metafisica argomentata in virtù del concetto ─ che ormai l’ateismo e gli antiteismi contemporanei fraintendono e confondono con l’idolo ─, si può difatti riscoprire quella espressa nel simbolo, vale a dire una “metafisica” che ─ per riecheggiare Paul Ricœur ─ afferra prima ancora d’essere afferrata, sopraggiunge prima ancora d’essere raggiunta. L’oggettività dell’esperienza religiosa, infatti, conserva sempre un profilo “soggettuale”: impone cioè a chi la vive di avere a che fare non con un’idea, per quanto nobile e alta, iperurania, né con un concetto assoluto, né con l’Essere stesso (il Dio delle religioni monoteistiche è difatti il di-più-dell’-Essere, come il metodo dell’analogia ci aiuta a capire e a spiegare ormai da secoli) che – nella nostra epoca scientifica – sarebbe tematizzabile con “la Cosa” per antonomasia (per antonomasia, sì, ma pur sempre “cosa”); impone piuttosto di avere a che fare con Qualcuno. È il motivo per cui, nel versetto 2 del salmo 62, leggiamo «O Dio, tu sei il “mio” Dio». Non si afferma, lì, filosoficamente, che Dio è Dio, ma si prega: «O Dio, tu sei il mio Dio». Può l’uomo parlare a Dio in questi termini? Può avanzare questa presunzione di possederlo? No, se ci fermiamo a concepire Dio secondo un paradigma classicamente metafisico; ma sì, se accettiamo che Dio “è-diventato”, si è fatto, è venuto a noi e per noi. Dio non semplicemente e soltanto “è”; Egli anche e soprattutto “viene”. L’impronunciabile Tetragramma di Es 3,14-15 viene ripreso e tradotto correttamente non dalla LXX (Ego eimi o on), ma in Ap 1,4 («Colui che è, che era, che “viene”»: ho herchomenos) e in Ap 1,17b-18 («Io “Sono” il Primo e l’Ultimo e il “Vivente”»: Ego eimi o […] Zon). Es 3,14-15 – così – viene inteso finalmente in senso storico-salvifico più che metafisico: «Io Sono Chi Sono» diventa «Io Sono il Vivente», così com’è possibile intendere leggendo l’ebraico di Es 3,14-15, col suo verbo essere (hājâ) lì coniugato come fosse il verbo vivere, esistere (h. ājâ). Non è un caso che Buber abbia tradotto quel passo «Ich bin da», coniugando non il verbo Essere, bensì il verbo Esserci (Dasein). Dio non solo è in assoluto: è di più, esce dalla sua assolutezza e si disloca, trascende la propria Trascendenza, si muove (si commuove, è scritto in Es 3,7), prende posizione, perciò si mette in rapporto, insomma vive e ama. Tutto ciò è grandioso, perché quando Dio vive e ama, si muove e si commuove, si disloca e si mette in rapporto, non solo esiste, ma anche fa esistere.

 

 

5. Lottare con Dio

 

Questo viene annunciato di Dio e Dio stesso dice di Sé in 1 Gv 4,8.16. E tutto questo rende possibile e sensato pregare: «O Dio, tu sei il mio Dio»; noi possiamo dire niente poco di meno che a Dio ciò che possiamo dire – per amore – a chi vogliamo bene: tu sei mio, tu sei mia, non nel senso che mi “appartieni”, ma nel senso che tu mi basti, sei il mio tutto. Le istanze “totalitarie” dello Shemá e della Shahāda, così, non vengono sacrificate, bensì riprese con maggiore radicalità e Dio viene riscoperto come il “Tutto” dell’uomo, sempre e ovunque, in ogni caso. Questo è il “monoteismo” dell’amore. Gli spirituali lo sanno e ce lo testimoniano: pensiamo a Francesco d’Assisi, che pregava: «Mio Dio, mio Tutto»; pensiamo a Teresa d’Avila: «Quien a Dios tiene, nada le falta: sólo Dios basta». Questa de-metafisicizzazione, dunque, non è rinuncia all’orizzonte-Altro, al Fondamento oggettivo; esprime, piuttosto, un senso nuovo dell’oggettività: una oggettività-soggettuale (già Barth ha scritto, nella sua Introduzione alla teologia evangelica, che «Dio è [per il pensiero umano] un oggetto sui generis»), che perciò impegna personalmente. Ma la lotta, così, non si svolge più tra gli uomini o tra le loro convinzioni più tenaci e nobili. È piuttosto, ormai e di nuovo, religiosamente, la lotta con l’Angelo, con il Malak Adonai.

La de-metafisicizzazione, invocata in quest’ambito e a questo titolo, può dunque segnare un ritorno a-Dio, più che un “addio” all’Essere.

 

 

6. Un filosofare per le religioni nell’età post-secolare

 

Questa mia affermazione, all’inizio del nostro convegno sul filosofare per le religioni nell’età post-secolare, può suonare come una sorta di provocazione. Vuole essere, tuttavia, un’invocazione della teologia all’indirizzo della filosofia. Vale anche per il teologo, infatti, ciò che Socrate diceva a Fedone: «Se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse […] perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno» (Fedone 90 c-d). C’è per la teologia contemporanea, nell’epoca della crisi della metafisica, in cui i razionalismi secolari della modernità lasciano a malincuore il posto all’insorgere di alcuni irrazionalismi pseudo-religiosi, la reale possibilità di riconfigurarsi “oltre” la metafisica (il che non significa “a prescindere” e men che meno “contro”), facendo leva su risorse che le sono proprie da sempre, fin dai suoi inizi, giacché si trovano nell’orizzonte del messaggio biblico, il quale non è filosofico ma neppure è anti-filosofico. Ma questa reale possibilità di “farcela da se stessa”, per la teologia rischia talvolta di degenerare in autosufficienza fideistica, perciò essa deve continuare a chiedere l’aiuto della filosofia, la quale ─ nel suo pur peculiare modo di trattare le religioni ─ le si apparenta e le si propone come compagna di viaggio.

In questo convegno, ci interroghiamo dunque circa la qualità del rapportarsi della riflessione filosofica alle religioni nell’ottica del riconoscimento, più o meno esplicito, e della valorizzazione della loro ragionevolezza-altra e anzi della loro meta-razionalità.

1 commento 

  • da miryiam wolf ho letto il lungo articolo e mi sembra veramente di constatare il pensiero teologico cristiano molto diverso dalla perspettiva ebraica. Oggi c e una totale confusione di idee e attitudini verso il prossimo c e confusione tra realta e azione e desiderio. OLggi non ci si pone piu la domanda che cosa e la conoscenza del bene e del male. La trascedenza di nD" ha perso valore. La societa e diventata psicopatica soprattutto in occidente dove il declino e in atto quo vadis Europa ?? Grazie per avermi dato la possibilita di commentare, cordialmente.

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