StoriaFosse Ardeatine, Kappler, giustizia beffata
di Luca Baiada
A cura dell’Associazione romana amici d’Israele e di Progetto Dreyfus, presso il Jewish Community Center, Roma. Presentazione del lavoro di Andrea Maori, La valigia di Kappler. 15 agosto 1977, cronaca di una fuga annunciata, in «Nuova Storia Contemporanea. Quadrimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea» (edito anche da Reality Book, Roma 2019).
Intervento di Luca Baiada
Questa è una storia di combattimento, non solo di vittime, anche se magari possono cambiare – diciamo così – le regole d’ingaggio. Sento il bisogno di ricordare Enrico Ferola. Era un fabbro, qui a Roma, a via della Pelliccia; aveva poco più di quarant’anni, quindi nel ’44 serbava ottima memoria di cosa erano stati vent’anni di dittatura. Serbava, certamente anche per via familiare, memoria di cosa era successo prima, di cosa erano stati certi rapporti di forza. Ferola frequentava, sì, anche la memoria, ma si dedicava anche a qualche cos’altro, perché fabbricava i chiodi a quattro punte, un arnese semplice ma efficace. Nel ’44 le strade sono strette, non sono illuminate. I tedeschi devono rifornire il fronte di Anzio, il fronte di Cassino, e bastano pochi di questi giocattoli per fermare un autocarro, cioè tutta la colonna.
Con Enrico Ferola muoiono alle Ardeatine molte altre persone, non abbiamo il tempo di ricordarle tutte. Però facciamo un cenno al professor Gesmundo e al professor Albertelli, professori di storia e filosofia che sanno da che parte schierarsi. Ricordiamo i militari Simone Simoni, Cordero di Montezemolo. Ricordiamo Pietro Pappagallo che con Morosini muore ammazzato a Roma e non era neppure parroco: nella città che al mondo ha la più elevata concentrazione di alto clero, i due assassinati dai tedeschi non sono nemmeno parroci.
Quanti sono gli ebrei morti alle Ardeatine? La comunità ebraica li indica in settantacinque, più un altro individuato qualche anno fa. Lo strattonamento delle cifre naturalmente prosegue, perché è un prosieguo dalla violenza con altri mezzi. Il mausoleo delle Ardeatine indica una cifra inferiore, settantuno; poi c’è l’Atlante delle stragi – operazione di punta del riparazionismo, cui vorrei dedicare qualche parola – che propone una scheda in cui gli ebrei assassinati alle Ardeatine sono indicati nell’elenco come settantadue, ma poi si propone un totale in cui diventano sessantasette, inspiegabilmente. Mancano dunque almeno otto ebrei, un’espressione che per me ha un’eco inconfondibile, quella di un famoso articolo di Debenedetti, Otto ebrei, che è stato poi ripubblicato con quel suo prezioso libro, 16 ottobre 1943. Fra gli ebrei ci sono il caduto più anziano, Mosè Di Consiglio, e uno dei più piccoli, cioè Michele Di Veroli, di pochi mesi più giovane di un altro quindicenne.
Ma raccogliendo l’invito che mi è stato fatto, voglio dedicarmi all’aspetto che scotta di più, la questione della giustizia. Perché l’evasione di Kappler è un’omissione, anzi una sottrazione alla giustizia, quella penale, e mi interessa ricordare qualcosa su giustizia penale e giustizia civile: alle volte su questo si perde un po’ l’orientamento.
La giustizia penale, per brevità la paragoniamo diciamo così a uno sprint; quella civile somiglia un po’ più a un diesel, che magari va più lontano. Anche loro sono combattimento, come si faceva combattimento, magari con mezzi più rudimentali come i chiodi a quattro punte, quando si stava sotto il tallone tedesco. La giustizia penale è appesa inevitabilmente alla sopravvivenza e alla processabilità dell’imputato. L’imputato deve essere individuato, deve essere vivo, deve essere in condizioni tali da potersi difendere. La giustizia civile non ha bisogno di tutto questo, perché coinvolge la responsabilità di uno Stato, e anche i crimini nazisti sono delitti di Stato.
I debiti per i risarcimenti non vanno in prescrizione, per questo tipo di crimini, e gli Stati hanno mezzi per pagare. Gli Stati sono individuabili, sono sempre reperibili, non invecchiano, non tremano, non finiscono su una sedia a rotelle, non muoiono, non fanno pena quando li intervista un giornalista. La responsabilità civile, che sembra con le unghie più corte, invece nel lungo periodo può essere più forte. Se avremo il tempo, potremo vedere qualche amaro paragone tra il fallimento, il sabotaggio della giustizia penale, e il sabotaggio dalla giustizia civile.
Mi preme sottolineare, però, che l’argomento di cui stiamo parlando non riguarda soltanto il passato, ma il presente e in un certo senso la progettazione del futuro.
Se passa la convinzione, a cominciare dalle coscienze, che certi crimini, in primis i crimini di Stato, possono restare impuniti, questo può favorire la loro ripetizione, sotto varie forme. Se si può fare impunemente la strage delle Ardeatine, come si può poi chiedere il conto per l’assassinio di Giulio Regeni, che è un delitto di Stato benché molto più piccolo? Non si può accettare che un giornalista entri in un’ambasciata saudita ed esca in tre valigie; non si può accettare che venga ucciso Andy Rocchelli in Ucraina (e abbiamo visto di recente il processo, in cui uno dei responsabili, che ha commesso l’imprudenza di tornare in Italia, è stato condannato in corte d’assise; la condanna però è stata accolta dai cori dei suoi sostenitori). Non si può accettare che una militante come Hevrin Khalaf venga assassinata, mentre la Turchia si sente in diritto di invadere, di fare quello che vuole. Neppure si può accettare – su questo tornerò, spero di averne il tempo – che possa essere assassinata una ragazza ebrea americana, Alisa Michelle Flatow – è successo nel 1995, Hamas con la copertura dell’Iran – senza alcun risarcimento malgrado gli sforzi tenaci della sua famiglia. Insomma, la questione dei risarcimenti per i crimini di Stato e soprattutto per quelli nazisti, ci riguarda perché riguarda la progettazione dello statuto della cittadinanza. Quindi non stiamo parlando soltanto della memoria: stiamo parlando del prosieguo di un paradigma di combattimento. C’è chi ha combattuto per costruire la democrazia, per cacciare il nazifascismo anche coi mezzi più rudimentali; noi abbiamo mezzi più sofisticati, siamo in posizioni più comode, e quindi abbiamo il dovere di batterci ancora meglio.
La questione della responsabilità di Stato su cui l’avvocato Fano mi ha chiamato ad esprimermi, passa attraverso passaggi complessi, che non abbiamo il tempo oggi di riepilogare per intero; però possiamo ricordare che al momento del processo Kappler, nel 1948, non era nemmeno possibile costituirsi parte civile nel processo penale militare. Questa è un’apertura che si verifica nel 1996, in occasione del processo Priebke: possono costituirsi le parti civili e chiedere giustizia. Occorreranno ancora alcuni anni, però, perché si possa chiamare dentro il processo penale uno Stato, e in particolare la Germania; ci si arriverà prima attraverso un processo civile – noto fra gli addetti ai lavori come «processo Ferrini» – con una sentenza di fine 2003, inizio 2004. Poi ci si arriverà nel processo sulla strage di Civitella, dove si vedrà per la prima volta la condanna dello Stato tedesco al risarcimento. Stiamo parlando di condanne mai eseguite: la Germania non ha mai pagato. Poi, è stata più volte ancora condannata, oramai siamo nel 2019, e di condanne anche civili ce ne sono state moltissime.
Accade che, malgrado tutto questo impegno dell’attività giudiziaria, ci sia un impegno di segno contrario del mondo politico. Richiamo la vostra attenzione, come anno chiave, sul 2008. Mi fa piacere che sia stato ricordato poco fa l’aspetto economico di queste vicende: l’anno 2008 vede arrivare in Europa la crisi economica, è l’anno del fallimento di una grande banca americana, è l’anno in cui il quadro politico berlusconiano sente di essere agli sgoccioli: riuscirà a restare ancora per qualche anno in sella. La Cassazione nel 2008 conferma più volte, in sede penale e civile, la possibilità di condannare lo Stato tedesco. A quel punto si svolge un vertice italo-tedesco a Trieste, che vede anche un incontro dei due ministri degli esteri: da un lato c’è Frattini, dall’altro Steinmeier. L’incontro si svolge, per colmo di amarezza, in quello che è probabilmente il più atroce dei Lager in Italia: la Risiera di San Sabba. Là si definisce una linea di riparazione memoriale che di fatto prenderà il posto, soprattutto nei desideri della Germania, del risarcimento.
Contemporaneamente, vedremo la progressiva attivazione dell’Avvocatura dello Stato italiana in difesa di Berlino. Cioè succederà, ed è successo negli anni successivi, che le vittime di alcuni di questi crimini, parenti di caduti, sopravvissuti ai Lager, internati militari o loro parenti, chiamino in causa lo Stato tedesco per il risarcimento e vedano comparire di fronte a sé l’Avvocatura di Stato italiana che di fatto assume le difese degli interessi della Germania. Operazione sconcertante, di fatto coeva a un’altra vicenda inquietante a cui ho accennato un attimo fa.
Uccisa nel 1995 a Kfar Darom Alisa Michelle Flatow, ebrea americana figlia di un avvocato, il padre riesce a ottenere la condanna dell’Iran, e prova a ottenere l’esecuzione della condanna in Italia, senza riuscirci, a seguito di diverse pronunce fra cui due della Cassazione. Quello che ci interessa notare, è che l’Avvocatura dello Stato interviene in questo caso in favore dell’Iran. C’è una simmetria, una coincidenza temporale, una curiosa coincidenza di interessi. Fra l’altro, in entrambi i casi siamo di fronte anche all’assassinio di ebrei, come se in definitiva questo bersaglio fosse particolarmente appetibile e fosse una specie di cartina al tornasole, su cui poi i nodi vengono al pettine con un’inquietante coincidenza.
Quale governo sia stato, a disporre quest’attivazione dell’Avvocatura dello Stato, resta oscuro, nonostante sia il minimo sindacale della cittadinanza, se non altro, sapere chi e quando ha preso una certa decisione. Per cercare di fare un po’di luce ho fatto causa – personalmente, a livello personale come cittadino – all’Avvocatura dello Stato, cercando almeno di sapere da dove proviene la decisione. Per il momento non ci sono ancora riuscito, nonostante la sentenza del TAR che ha dato ragione all’Avvocatura abbia lasciato intravedere vari profili. Di fatto, è stata presa una certa decisione ma si è detto fra le righe che si sa benissimo dove sta il torto, insomma che le cose stanno in un’altra maniera. Infatti sono state prospettate delle questioni di costituzionalità, su cui adesso non abbiamo il tempo di trattenerci. Di certo queste coincidenze lasciano sbigottiti.
Mi fa piacere che l’autore, in questo saggio, abbia dato conto anche di un posizionamento del Procuratore generale militare all’inaugurazione dell’anno giudiziario militare 2018, e senza sapere che la persona che ha stimolato quella presa di posizione sono io. Questo lo dico non per rivendicare alcun merito, anche perché per ora non sono ancora arrivato all’obiettivo che mi prefiggo. Ho ben poco da rivendicare e la battaglia è in corso, almeno per sapere chi ha deciso quel posizionamento. Poi naturalmente l’obiettivo è che il posizionamento cambi, e attraverso questo che cambi quello di tutte le istituzioni. L’Avvocatura dello Stato non è l’avversario su questo argomento: l’Avvocatura dello Stato è un organo tecnico serio, che risponde a ordini politici; evidentemente ci sono degli ordini politici sbagliati.
Sconcerta che su tutto questo ci sia una specie di – non saprei come chiamarlo – uso spettacolare dei luoghi del dolore. C’è una sorta di uso come passerella dei luoghi del sangue, della persecuzione, del massacro. Bene ricorda, questo saggio, il passaggio dell’allora presidente tedesco Heinemann alle Fosse Ardeatine, dove hanno massacrato tante care persone, per esempio Enrico Ferola. Quel presidente mentre va alle Fosse Ardeatine si attiva perché possa essere liberato Kappler. Alle Fosse Ardeatine è andato – fra i primi gesti del suo mandato e possiamo dire della sua importante promozione, cioè il passaggio da ministro degli esteri della Germania a capo di Stato – il presidente Steinmeier. Queste singolarità ci lasciano perplessi, perché Steinmeier è proprio colui che come ministro degli esteri si è attivato nel vertice italo-tedesco del 2008 perché la Germania pagasse soltanto riparazioni memoriali con spesa modica, immensamente inferiore a quello che deve pagare per i risarcimenti. Steinmeier ha apertamente rivendicato questo suo posizionamento in un’intervista, lo scorso settembre, al «Corriere della Sera», ricordando l’istituzione del Fondo italo-tedesco per il futuro col quale la Germania ha stanziato, se ho contato bene, quattro milioni – quattro milioni, non miliardi – di euro per attività memoriali e culturali.
Provate a calcolare. La Germania ha sterminato in Italia – se i calcoli sono giusti, ma il calcolo non è mai stato totalmente attendibile – probabilmente 30.000 persone, parlando solo delle stragi, senza parlare dei morti in deportazione. Se dovessimo – ahimé, calcolo misero e triste – dividere quattro milioni di euro per il numero dei morti, avremmo un’impressione dello spessore della beffa.
Fra i prodotti memoriali ce n’è anche uno di punta. Ha pur qualche valore, a livello catalogale, ma per quel che conta la mia opinione è piuttosto discutibile, anche se è un testo che comunque va frequentato, che vale la pena conoscere. È l’Atlante delle stragi, che ha come volume a corredo Zone di guerra, geografie di sangue. Ahimé, dell’Atlante delle stragi purtroppo verrebbe da dire che la farina del Diavolo va tutta in crusca: per esempio, il calcolo degli ebrei assassinati alle Ardeatine, l’abbiamo appena visto.
Questo saggio ci porta a rifrequentare alcune cose che magari avevamo messo da parte. Così, soltanto per riprendere qualche elemento, richiamo l’attenzione, fra le varie cose invitanti su cui si sofferma, le iniziative, a distanza di anni, sull’evasione di Kappler, al limite della disinformazione, fra le quali alcune brillano. Un articolo di Paolo Guzzanti su presenze massoniche, scambi massonici fra Italia e Germania intorno all’evasione di Kappler. Un libro e varie esternazioni del generale Ambrogio Viviani su altre vicende che sarebbero connesse al coinvolgimento della struttura, emersa successivamente e chiamata l’«Anello» o l’«Anello della Repubblica» o il «noto servizio», che avrebbe avuto un suo ruolo, con coinvolgimento anche di un personaggio della repubblica sociale che sarebbe stato coinvolto nella fuga di Roatta; quindi, una ragione in più per dire che questo non è il passato, ma un continuo che trascorre attraverso il Novecento, che riverbera i suoi effetti sul presente. E poi ci sono dichiarazioni di Forlani che risalgono addirittura al 1997, quindi parliamo di un periodo successivo alla riemersione dell’Armadio della vergogna, cioè dell’archivio segreto sulle stragi nazifasciste, archivio riemerso faticosamente, rifrequentato a partire dal 1994, che conteneva le prove dei massacri in Italia.
Non ho il tempo di approfondire queste cose adesso, rimando alla lettura di questo saggio interessante. Osservo solo – metto anch’io, senza pretesa di certezze, diciamo un segnalibro sull’argomento, un avviso di allarme e di campo minato – qualcosa. Se è vero, e la persona è seria, quello che dice il giudice Salvini sul fatto che nel memoriale Moro potesse esserci, nella parte non emersa, la storia di Kappler, allora, aggiungo io e mettiamoci i punti interrogativi, siccome è pressoché impossibile che Moro non fosse al corrente dell’esistenza dell’Armadio della vergogna, nel memoriale come poteva parlare del caso Kappler e tacere sull’Armadio della vergogna? Delle due, quale è più grossa? Certo, la vicenda Kappler è più recente, quando c’è il sequestro Moro; però anche l’Armadio della vergogna sta lì, non è ancora riemerso. Se c’è un collegamento fra il memoriale Moro e l’assassinio di Dalla Chiesa, e se c’è nel memoriale il caso Kappler e quindi può esserci anche l’Armadio dalla vergogna, allora, ecco: sto parlando a un uditorio qualificato, quindi non ho bisogno di mettere i segmenti di collegamento fra questi puntini. Sono sicuro che sapete afferrare bene e riflettere.
Concludo. Dice Primo Levi: è successo quindi può succedere. Dice bene, però quando parla Primo Levi l’Armadio della vergogna e molte altre cose non sono ancora emerse; possiamo persino attualizzare, raccogliere migliori insegnamenti. È successo quindi può succedere; l’hanno fatto quindi possono rifarlo; l’hanno fatto, sono rimasti impuniti in sede penale e in sede civile, e vogliono restare impuniti ancora, in sede civile. Quindi possono rifarlo più tranquillamente. Perciò, se permettiamo che restino senza conseguenze, non solo in sede penale, dove ormai gli imputati sono tutti morti o non più processabili, ma anche in sede civile, dove invece la giustizia è praticabile, allora noi permettiamo che possano rifarlo. Noi non dobbiamo, non vogliamo permetterlo.
[...]
Sono state dette cose molto interessanti. Brevemente, raccolgo soltanto qualche stimolo. Sui crimini nazisti segnalo l’impegno di una parlamentare americana, Elizabeth Holtzman, per il Nazi War Crimes Disclosure Act. Questa parlamentare si è battuta per anni ed è riuscita in parte persino a far piegare le ginocchia alla CIA, per ottenere la desecretazione di milioni di documenti sulla storia di cosa è stata la presenza nazista negli Stati Uniti nel dopoguerra. Bisogna dire che lì il Freedom of Information Act ha funzionato. In Italia, diciamo così, ci stiamo lavorando, visto che non riusciamo nemmeno a sapere quale governo ha ordinato la mobilitazione dell’Avvocatura dello Stato nei processi, per esempio per il risarcimento dell’assassinio di Alisa Michelle Flatow, o per i crimini nazifascisti.
Qualche altro aspetto. C’è un’analogia fra il quadro economico nel 1977 e quello nel 2008 con l’arrivo della crisi economica in Europa. Questo evidentemente non è un caso, perché quando l’Italia si indebolisce il paese più forte allora come adesso è la Germania, che riesce a ottenere quello che in altre condizioni, con diversi rapporti di forza, non sarebbe riuscita a strappare.
Sono assolutamente d’accordo con quello che è stato osservato poco fa sulla questione del numero degli ebrei alle Ardeatine. Anch’io penso che le diatribe sui numeri siano spesso nuove offese alle vittime; il numero non è così determinante. D’altra parte, quando ci si trova di fronte a calcoli sbagliati, volutamente o anche soltanto per negligenza, viene voglia di mettere i puntini sulle «i». Però sono d’accordo con lei, effettivamente è una trappola, ogni volta che ti costringono a smentire, stai già perdendo energie perché non è quello il centro del discorso. Però, volente o nolente ti ci portano, ti fanno inciampare, è una – si dice a Roma – scianghetta. Però come si fa a non reagire, di fronte a cifre sbagliate? Questo è un po’ il problema della memoria, il paradigma dell’impegno dentro la memoria.
Ancora sulla questione dei risarcimenti. È stato citato di nuovo Regeni e mi preme fare un piccolo paragone. Chi è stato esattamente a uccidere Regeni? Il delitto determina una responsabilità penale, ma la responsabilità dello Stato egiziano per il risarcimento c’è comunque, perché era nelle mani di autorità egiziane. Erano civili, erano militari, quanti erano, di questo o quel servizio: la responsabilità dello Stato egiziano c’è comunque. Facciamo un salto con la macchina del tempo.
1944, Rignano sull’Arno, Villa del Focardo, la strage della famiglia Einstein. Non si è mai saputo quale reparto tedesco ha fatto la strage, però la famiglia viene sterminata, probabilmente anche per vendetta contro Albert Einstein, e si colpisce direttamente la famiglia di Robert, che è anche lui vittima dell’eccidio, perché poi si uccide l’anno successivo. Ha importanza sapere quale reparto tedesco è stato, quale ufficiale l’ha ordinato, per l’aspetto penale, sì; ma l’obbligo del risarcimento, l’obbligo della Germania di oggi per il risarcimento di quella strage c’è comunque.
Regeni come la famiglia Einstein. Questo ci ripete che non stiamo parlando del passato ma del presente, della progettazione del futuro. Bisogna conquistare questo ambìto traguardo, che non si deve uccidere e che quando si uccide ci sono conseguenze per davvero, e che se non sono possibili le conseguenze penali, perché gli autori singoli sono protetti, non sono estradati, sono nascosti o semplicemente sono morti o troppo malati, ci sono Stati che devono risarcire.
Mi è venuta in mente una cosa. Sul posizionamento dell’allora sottosegretario Pastorino, nel 1977, c’è una coincidenza: mi sembra che fosse uno dei più importanti agenti di cambio a Milano. Questo potrebbe darci un piccolo dettaglio, un altro piccolo allarme.
Sulla moglie di Kappler. Era figlia di un gerarca nazista che fu presentato con un personaggio secondario, ma così secondario non era. Questo getta ombre sul fatto che quel matrimonio potesse avere dei secondi fini fin dall’inizio, che quindi ci fosse un’organizzazione per la tutela di certi personaggi criminali.
Un altro aspetto. È stato fatto uno stimolo molto importante, nel libro, su un interessamento di Simon Wiesenthal. C’è un incontro fra Wiesenthal e un emissario di Cossiga, non è indicato il nome. Wiesenthal escluderebbe un coinvolgimento dei servizi segreti nel caso Kappler. È tutto da approfondire, soprattutto si dovrebbero consultare le carte Wiesenthal per vedere quale fu l’impressione di Wiesenthal su quel colloquio con l’emissario di Cossiga. Wiesenthal in quella situazione, qui parlo a livello congetturale, può avere molti motivi per tenere per sé alcune informazioni, perché ha capito che si è in un campo minato. D’altra parte l’emissario di Cossiga potrebbe avere molti motivi per raccontare l’incontro con Wiesenthal in maniera non esattamente conforme. Questo non lo so, lavoro puramente a livello congetturale. Però si nota una differenza di comportamenti a livello di limpidezza. Wiesenthal, persona seria, non propone immediatamente delle soluzioni complottiste, va coi piedi di piombo, e forse questo è l’aspetto che l’emissario di Cossiga raccoglie di più, non lo sappiamo. Ma guardate dall’altra parte gli altri tre personaggi, e cioè il generale Viviani – diventerà parlamentare, brevemente nel gruppo misto, poi andrà col Movimento sociale italiano – Forlani e Paolo Guzzanti: si pongono al centro della scena dicendo «io so tutto, ve lo racconto io come sono andate le cose». Guardate che abisso separa questi tre personaggi da Wiesenthal.
Concludo con un’osservazione così, soltanto di metodo. Siamo di fronte a una storia in maschera. Ci sono molte maschere, in questa storia. In quel periodo c’è il governo della non sfiducia: è una maschera verbale per nascondere il fatto che in realtà il Governo riceve anche il sostegno dei comunisti, sta lì anche con i voti della sinistra storica. Quindi, un governo con un appoggio in maschera: la maschera si chiama «non sfiducia». C’è una liberazione di Kappler concordata e mascherata da fuga dentro una valigia. A distanza di molti anni, a partire dal 2008, ci sarà un inadempimento tedesco del debito di guerra, in maschera da operazione culturale riparazionista. Purtroppo noi non riusciamo a liberarci dalle maschere.
Chi lo desidera, può ascoltare gli altri inteventi qui (NdR)
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