LibriRecitar suonando. La didattica pianistica del Duemila
di Elena Lattes
Oggigiorno la musica classica eseguita dal vivo, in particolare per quella riguardante le opere liriche, conosce un serio momento di crisi. Ad andare a teatro, infatti, sono, generalmente i pochi appassionati o professionisti del settore, e non più, come un tempo, grandi quantità di persone.
Quali sono le ragioni? Sicuramente le cause sono molteplici, ma una delle principali è la concorrenza di internet, mezzo che ci rende facilmente e soprattutto gratuitamente fruibile qualunque concerto. Anche la musica leggera, poi, le registrazioni, la crisi economica mondiale (scoppiata ben prima dell’attuale pandemia) e tanto altro ancora contribuiscono al disinteresse generale.
Ci sono, tuttavia, anche dei motivi “interni” che Piero Rattalino, docente all’Accademia di Imola e all’Università di Trieste, analizza in “Recitar suonando” pubblicato dalla Zecchini Editore. Uno di questi, forse il più rilevante, è il metodo di studio incentrato più sul solfeggio, ovvero sulla tecnica di riproduzione dei suoni, che sull’interpretazione. Oggi, spiega l’autore, “la didattica tradizionale porta l’allievo a ri-produrre, non a ri-creare”. E questo è un grosso errore come già testimoniava, oltre un secolo fa, Alfred Cortot, il quale da piccolo - siamo alla fine dell’‘800 - venne rimproverato da Anton Rubinstein: “Ragazzo, Beethoven non lo si esegue, lo si reinventa!”. L’esecutore ha un doppio compito: rispettare l’autore, ma porsi al servizio dell’ascoltatore. Dev’essere, ossia, un comunicatore, soprattutto di sentimenti, poiché la musica vi è strettamente legata, ma anche deve saper attirare l’attenzione del pubblico. Con quali stratagemmi? Uno di questi è il linguaggio del corpo, l’uso delle mani, dei polsi e perfino delle spalle: “Per creare sorpresa, prima di attaccare la coda finale [Richter] arriva a togliere bruscamente le mani dalla tastiera per poi gettarsi sui tasti all’improvviso (...) Zimerman e Sokolov utilizzano il tocco all’indietro colpendo il tasto mentre ritraggono bruscamente il braccio”. In sostanza, dunque, gli insegnanti di oggi dovrebbero ripensare la didattica poiché i metodi tradizionali indirizzano “il discente verso la razionalità del pensiero, ma non verso la razionalità dell’azione. Chi suona per un pubblico deve invece agire necessariamente rispondendo anche a quest’ultima.”. Così facendo si differenzia dall’esecuzione per un disco: mentre quest’ultimo “è fatto per il riascolto, il concerto è fatto per essere ascoltato una sola volta. E quella unica volta dev’essere una rivelazione”.
Un altro elemento importante è usare anche altri sensi e formare così l’orecchio interiore, come associare, per esempio, la vista all’udito e immaginare il suono semplicemente guardando lo spartito. L’insegnante quindi dovrebbe far cantare gli allievi, in modo tale che essi colleghino le note alle parole o, nel caso queste non ci siano, ad una storia inventata. Questo permetterà di progettare l’interpretazione della musica che a sua volta aiuterà la chiarificazione e l’analisi delle emozioni in modo tale da poterle poi trasmettere ai propri ascoltatori.
Tanti altri sono i suggerimenti e le riflessioni che l’autore affronta in un volume che nasce da una serie di seminari da lui tenute presso l’Accademia Musicale Praeneste di Roma, nel 2017-2018. Dopo una lunga introduzione sulle problematiche che l’hanno portato a trattare l’argomento, prosegue con lo studio e la didattica nella storia, con particolari riferimenti a Chopin, al neo simbolismo, alla classicità e al romanticismo per concludere infine con i sei capitoli corrispondenti alle altrettante lezioni.
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