Lo sconosciuto

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di Elena Lattes

Due fratelli, entrambi soldati che tornano al fronte dopo una breve licenza per poter partecipare al matrimonio della sorella, si incontrano nel 1940 in una stazione ferroviaria francese affollatissima di profughi, feriti, personale medico, mamme con bambini e donne in procinto di partorire. Hanno prestato servizio in posti diversi: il maggiore, dall’aria inquieta, si è trovato nelle trincee sulla linea Maginot corpo a corpo con il nemico. Ha visto morire i propri compagni ed è stato costretto ad uccidere un tedesco con le sue mani. Rovistando nelle tasche del corpo che giace a terra, trova qualcosa che lo lascia sconvolto e che racconterà nei minimi dettagli al fratello durante la lunga attesa del treno. Il secondo, invece, di dieci anni più giovane, ha “incontrato solo due avversari: la noia e il freddo”, dunque apprezza qualunque cambiamento ed è contento di andare a combattere.

Questo, in breve, è “Lo sconosciuto” di Irène Némirovsky, già pubblicato dall’Adelphi nel 2005 e riproposto recentemente dalle Edizioni Dehoniane. Un racconto di poche pagine, che, se non fosse stato per l’arresto dell’autrice da parte dei nazisti, avrebbe fatto parte, forse, di un romanzo più ampio. Sebbene questa sia l’ipotesi più accreditata dai commentatori, “Lo sconosciuto” è una storia compiuta che può prestarsi a diverse chiavi di lettura. La più immediata e la più diffusa è sicuramente quella di un inno contro la guerra, un evento tragico nel quale un soldato qualsiasi può trovare nel nemico che ha di fronte l’immagine e il ritratto del padre comune ad entrambi.

Alcuni particolari, però, possono far riportare alla mente le vicissitudini dell’autrice, aiutando dunque il lettore più attento a vedervi alcuni elementi autobiografici: la stazione “nel più grande disordine”, piena di rifugiati, ricorda infatti, la fuga della Némirovsky dalla Russia postrivoluzionaria, prima, e dalla Parigi della seconda guerra mondiale poi. Tema, quello della fuga, trattato anche in un altro romanzo, “Suite française”. Anche il rapporto dei due fratelli con i genitori, in particolare con il padre dato per morto durante la prima guerra mondiale, nel 1917, ma che in realtà, come scopre il maggiore, potrebbe essere soltanto scomparso e aver formato una nuova famiglia altrove, potrebbe ricordare la mamma dell’autrice: anch’ella traditrice del proprio consorte e genitrice assente per egoismo e superficialità che la resero odiosa agli occhi della figlia.

Tornando alla visione del nemico tedesco come proprio fratello – o fratellastro – sarebbe interessante chiedersi se la Némirovsky, nel caso in cui fosse sopravvissuta ad Auschwitz, sarebbe stata d’accordo con questa interpretazione, tenendo conto che fu arrestata e deportata come ebrea proprio dai nazisti, nonostante avesse aspramente criticato il mondo ebraico (in particolare quell’ambiente ricco e aristocratico ucraino nel quale era in parte cresciuta), nonostante si fosse convertita al cristianesimo, facendo convertire anche marito e le due figlie, nonostante frequentasse circoli antisemiti e fosse da loro apprezzata, nonostante infine, come scrisse il marito nel disperato tentativo di salvarla, non avesse mai proferito parola contro i tedeschi e la Germania e che tentò disperatamente di ottenere la cittadinanza francese (che le venne negata fino all’ultimo)?

Resta in ogni caso un’alta lezione morale e di vita che rende il racconto, già di per sé molto scorrevole e avvincente, adatto anche ai più giovani, grazie anche al linguaggio e ai toni pacati. Il libricino, che è accompagnato da una nota di lettura di Jean- Louis Ska, dunque, potrebbe essere un’occasione da proporre agli studenti delle scuole superiori per stimolarli a riflettere sulla guerra e sui drammi che essa inevitabilmente comporta.

 

 

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