LibriL'ultimo traduttore
di Elena Lattes
Se pensiamo all’yiddish di solito viene in mente l’ebraismo dell’Europa centro orientale, soprattutto quello degli ultimi centocinquant’anni, raccontato e illustrato da una ricca letteratura e da numerose rappresentazioni teatrali. Quasi nessuno, invece, sa che anche in Italia c’è stata una comunità che faceva di questa lingua un uso quotidiano. A metà del ‘500 arrivarono nel nostro Paese, infatti, numerose famiglie sia per motivi lavorativi, sia alla ricerca di posti più tranquilli dove vivere. Tra di esse ci furono gli Heilpron o Heilbroon che si stabilirono a Cremona. Jacob, figlio di Elchanan, nato proprio in questa città intorno alla metà del sedicesimo secolo, fu l’ultimo, nella penisola, che si occupò di tradurre dall’ebraico all’yiddish e da quest’ultimo all’italiano. Nonostante conducesse una vita modesta e a volte perfino disagiata, egli divenne una figura importante per tutta la zona del Lombardo Veneto: insegnante e precettore, fu anche consigliere e uomo di fiducia in numerose famiglie di notabili, commentatore, sofer (scrivano della Comunità e trascrittore dei testi sacri) nonché grande erudito, tanto che, nonostante pare non avesse conseguito il relativo titolo, viene annoverato tra i rabbini nella cerimonia commemorativa che ogni anno alla vigilia dello Yom Kippur si tiene nel cimitero di Padova dove egli è sepolto. Sulla sua vita e sulla sua intensa attività è uscito recentemente il volume di Pia Settimi “L’ultimo traduttore”, pubblicato dalla casa editrice “Il Prato”.
Il libro è diviso sostanzialmente in quattro parti. Nella prima l’autrice racconta nei dettagli la vita, i vari spostamenti e l’attività che svolse in diverse comunità, illustrando con chiarezza e semplicità l’ambiente in cui Jacob – che italianizzò il suo cognome in Alpron – operò e profuse le sue conoscenze. A questa seguono le relative introduzioni e il testo della più grande traduzione (e adattamento) che egli fece dall’yiddish all’italiano “Mizvot nashim”, ovvero i precetti per le donne, scritto a metà del sedicesimo secolo da Benjamin Aaron Ben Avraham Slonik, molto popolare tra le signore di area tedesca dell’epoca. La terza parte è focalizzata sostanzialmente sull’analisi di questo testo dal punto di vista linguistico e morfologico accompagnata da riflessioni sulla situazione e sulle problematiche che Alpron potrebbe aver affrontato a riguardo. Infine sono riportate tre preghiere in italiano composte da suoi contemporanei che vissero nella stessa area geografica.
Leggendo il testo si ha un’idea dell’atmosfera dell’epoca, in cui le donne ebree, mediamente più acculturate delle loro vicine, pur non avendo accesso agli studi dell’ebraico, erano tuttavia in grado di leggere e capire l’yiddish. Almeno inizialmente, poiché come è ben spiegato dalla Settimi, nel corso di una o al massimo due generazioni la lingua così diffusa tra le popolazioni di area tedesca lasciò il posto al volgare e al dialetto locale, il veneziano, scritto con caratteri e arricchito da numerosi residui ebraici, tanto che essa non era più compresa dagli ashkenaziti italiani. “L’attività editoriale a Venezia, in quei decenni, era ricchissima, come tutta la vita culturale. In particolare si vedeva anche nella Venezia ebraica ‘una straordinaria concentrazione di ingegni in grado di praticare una molteplicità di genere e di strutture tipiche della letteratura volgare: dal sonetto, privilegiato da Leon Modena e da Sara Copio Sullam, al trattato filosofico di Simone Luzzatto, dal dramma pastorale di Benedetto Luzzatto, alla tragedia dello stesso Leon Modena, in una varietà che lascia[va] trasparire un desiderio di apertura verso la cultura esterna mai riscontrabile in precedenza.’” Pare che Alpron fosse profondamente partecipe di questo fermento letterario: lesse molto e raccomandò ai suoi allievi di tralasciare i testi che all’epoca evidentemente erano tra i più diffusi, come l’Orlando Furioso dell’Ariosto e le Centonovelle di Francesco Sansovino. Egli seppe quindi individuare le tendenze e i cambiamenti epocali del periodo in cui visse ed ebbe il grande merito, con la sua attività di insegnante e traduttore, di fare da ponte tra culture e generazioni diverse.
La Settimi accompagna il lettore in questo ambiente così aperto alla vita circostante e in cui, nonostante l’oppressione, le censure e le persecuzioni della Chiesa cattolica, ci fu una copiosa produzione tipografica e letteraria.
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