Il viaggio di Yash di Jacob Glatstein

LibriIl viaggio di Yash di Jacob Glatstein

di Mara Marantonio

“Se si volesse rievocare il sapore di una giornata su quella nave inglese si dovrebbe iniziare con la colazione salata, il tanfo della pancetta fritta e rifritta, del pesce fritto e delle aringhe in tutta la grande sala da pranzo”.

“…per me Hitler significa seicentomila fratelli ebrei tedeschi, i miei diciassette milioni di fratelli e la nostra paura isterica del fascismo: Hitler, Haman Torquemada, Chmelnitski, Krushevan, Josef Haller”.

Sul far dell’estate la casa Editrice Giuntina di Firenze   ci ha riservato un prezioso regalo: Il viaggio di Yash, romanzo complesso e intrigante uscito dal cuore e dalla penna di uno dei più importanti autori in lingua yiddish del Novecento, Jacob Glatstein (Yankev Glatshteyn).

Il volume è frutto di un progetto di traduzione letteraria a più mani, coordinato da Maria Ines Romano.

Poeta, scrittore, giornalista e critico letterario, Jacob Glatstein nasce a Lublino (Polonia) il 20 agosto 1896 e muore a New York il 19 novembre 1971.

 

Nell’interessantissima introduzione, l’illustre studiosa di yiddishkeit Ruth Wisse (1936, originaria di Czernowitz in Ucraina, naturalizzata statunitense) ci racconta la vita dell’Autore e la genesi dell’opera.

Jacob riceve dalla famiglia un’educazione ebraica tradizionale, ma aperta alle materie secolari.

Nella formazione del ragazzo ha un ruolo fondamentale la “tribù” paterna dei Glatstein (Glatshteyn): uno zio è responsabile della locale scuola elementare (heder) frequentata dal piccolo Jacob, un altro zio, sarto (!), lo introduce alla letteratura secolare, un terzo zio è cantore nella maggiore sinagoga di Lublino. Due cugini sono direttori del coro e compositori: da costoro egli eredita una forte passione per la Musica.

Notevole è la figura paterna: Icek (Isaac), questo è il suo nome, per vivere vende abiti confezionati, ma la sua passione è la letteratura, ebraica e yiddish; e, in cuor suo, spera il figlio divenga scrittore.

Tra l’altro, nella Polonia e nella Russia di quell’epoca l’amore per la letteratura era assai diffuso tra i giovani: la scuola, con la  tipica incoerenza che non conosce tramonto, preparava a professioni dalle quali gli ebrei sarebbero stati esclusi; meglio quindi dedicarsi ad attività culturali!

Ma il personaggio determinante è lo zio più giovane, trasferitosi presto a New York: i genitori, poco prima dello scoppio della guerra (1914) decidono d’inviare Jacob da lui a causa del crescente nazionalismo polacco con forti venature antisemite.

Dopo aver abbracciato all’inizio gli studi di giurisprudenza – ben presto abbandonati- egli intraprende una nuova vita come letterato yiddish.

Con alcuni amici dà vita alla corrente poetica modernista yiddish dell’Introspettivismo (Inzikhizm), volta a comprendere l’uomo nella sua sfera più personale, drammatica, e ne dirige la Rivista Inzikh.

Lo yiddish è il linguaggio universale del mondo ebraico di quell’epoca, anche se diversi scrittori (ebrei) preferiscono esprimersi nelle lingue nazionali.

Nella sua poetica la tradizione ebraica europea si amalgama  con la modernità delle tendenze letterarie innovative che riportano a Thomas Stearns Eliot, James Joyce, Ezra Pound.

Da notare che, pur nelle differenti esperienze, tutti gli Autori citati sono, a vario titolo, una sorta di esuli, come lui.

Nel giugno 1934 Jacob (sposato, padre di tre figli) deve ritornare nella città natale, Lublino, al capezzale della madre morente.

Siamo in un momento tragico: il nazismo ha preso il potere in Germania, Hitler allungherà ben presto i suoi tentacoli sull’Europa e gli Ebrei tentano in tutti i modi di fuggire da un continente ancora una volta ostile. Ora più che mai.

Questo libro è la trasfigurazione letteraria della sua esperienza personale, pur non rivelando, l’Autore, gli aspetti più intimi di sé; la modestia, la riservatezza sono infatti tipiche della sua formazione.

Il narratore Yash, che porta il nomignolo dell’Autore, è la figura centrale e la coscienza dei due libri.

Concepito come trilogia, la prima parte apparve subito (1934) nella piccola Rivista Inzikh (“In sé”), mentre il libro vero e proprio (Ven Yash iz geforn, cioè: Quando Yash partì) fu pubblicato tre anni dopo con la dedica “Alla memoria di mia madre”.

Il secondo volume (Ven Yash izgekumen, Quando Yash arrivò) fu, nel 1940, dapprima ospitato nel settimanale newyorkese Yidisher Kemfer, indi, nello stesso anno, uscì come testo definitivo.

Una raccolta di poesie del 1943 annunciava che il volume finale della trilogia stava per vedere la luce col titolo Ven Yash iz tsurikgekumen (Quando Yash ritornò).

In realtà uscirono solo un paio di frammenti, per cui il terzo volume divenne, in qualche modo, espressione di un progetto/programma non concluso.

Come annota con amarezza Ruth Wisse, lo schema del viaggio, concepito come omaggio filale agli Ebrei Polacchi, non sopravvisse alla loro distruzione.

Il primo testo si apre con la partenza del protagonista dal porto di New York a bordo della nave Olympic: “Non appena la nave sciolse gli ormeggi mi sentii subito in balia delle leggi del mare…” e si conclude sul treno che lo porta a destinazione, con l’avviso del controllore della prossima fermata “Lublino!”

Sulla nave egli incontra una variegata umanità, colta con sguardo ironico e autoironico.

Le “speciali leggi del mare” dicono che “…com’è invisibile l’influsso della luna sulle acque e, come tanti vorrebbero, su tutta l’umana psiche, anche il mare, imperscrutabile, agisce sui passeggeri. I passi diventano più sciolti, le maniere più aggraziate, le voci più melodiose. Si sopporta un po’ di male per non far del male allo straniero sconosciuto. I gesti diventano più gentili….Tra uomo e uomo e perfino tra uomo e donna ondeggia un lieve ponte di seta”. Un linguaggio musicale, si direbbe, che sa cogliere ogni nota. La vita quotidiana, in un luogo ”non luogo”.

Lo colpisce la reazione di banale indifferenza percepita dai passeggeri alla notizia della cosiddetta “Notte dei lunghi coltelli”, cioè il massacro delle S.A. (Sturmabteilungen), i fedelissimi di Hitler che egli fece assassinare tra il 29 e il 30 giugno 1934.

“In questo giardino dell’Eden internazionale della nave la notizia di Hitler fu il primo schiaffo all’essere ebreo”.

Cerca allora la compagnia dei correligionari. Incontra un’umanità la più disparata venendone apprezzato per la capacità di ascolto.

Scrive Glatstein in un saggio cui accenna Ruth Wisse: “Mi sono sempre piaciute le orecchie umane. Voglio dire le orecchie che ascoltano davvero qualcun altro”. Il principio base del “Fare Musica Insieme”, ascoltandosi l’un l’altro, che emerge sempre; valido pure per l’esistenza quotidiana.

Breve carrellata. Il pio ebreo con le pantofole lo spinge a meditare sullo scopo del viaggio e dunque a ripercorrere la storia della sua famiglia.

Descrizioni piene di slancio e dense di un umorismo che ti riporta a quell’universo povero, ma carico di suggestione e forte dignità, che verrà distrutto dalla “zampa artigliata” di Adolf Hitler.

Zampa che “scrive con violenza capitoli di storia ebraica e per questo non può non interessarmi a morte”.

Qui sta la differenza. Per chi ebreo non è, quell’uomo è solo il dittatore della Germania; per il nostro io narrante sono i milioni di ebrei uccisi lungo i secoli. L’olandese che detesta i correligionari polacchi e vede male il Sionismo (“…un grosso pericolo per noi” -!-); il tipo originario della Bessarabia, ma residente a Bogotà, in Colombia, dove il problema è che non ci sono donne ebree, ma solo uomini….

Bel pasticcio, specie ai fini della possibilità di metter su famiglia e avere dei figli. Esilarante.

“Sangue ebraico, stirpe ebraica…Un peso enorme” riflette il protagonista a quest’ultimo proposito “Ebreo vuol dire anche ebrei indiani di Calcutta, ebrei ingialliti dagli occhi a mandorla della Cina, ebrei arabi di Algeria…e se il mucchio vi sembra troppo piccolo, il tizio della Bessarabia ha aggiunto un bel po’ di esotismo con le sofferenze degli ebrei in Colombia”.

C’è il danese socievole; e il russo ribelle che racconta la vita nel suo villaggio, in perenne balia dei cosacchi: grandi speranze nella Rivoluzione, poi, puntualmente, disattese.

In questo caleidoscopio di storie che non finisce mai di stupire né chi scrive, né il lettore, non mancano casuali, ma sorprendenti, combinazioni: studente / professore; padre vedovo con figlia tredicenne: il primo cerca invano di moderare l’impertinenza della seconda….L’illuso dal comunismo (quello non manca mai…), la fascinosa professoressa del Wisconsin, ecc., ecc.

Evidenti reminiscenze deamicisiane in una visuale che, nel secondo volume (privo di dedica), si trasformano, pur con le dovute differenze, in inevitabile richiamo a Der Zauberberg (La Montagna magica o, come si dice di solito, in modo improprio, La Montagna incantata) di Thomas Mann (1924), che Glatstein  ben conosce. Qui il sanatorio del Dr. Jessen a Davos è un luogo di villeggiatura tra Lublino e la vicina Kazimierz – Dolny (Nałęczów): dalle suggestive Alpi della Mitteleuropa a un piccolo centro ebraico dell’Est.

Vi sono due figure di rilievo, due Maestri o Profeti, che introducono il nostro viaggiatore nella quotidianità polacca: la prima è “il signor Steinmann”, custode dell’universo hassidico, uno storico formatosi in Germania (ironia della sorte) che ci coinvolge nel profondo coi suoi racconti sulla vita degli Ebrei dell’Europa orientale; egli svolge, per gli ospiti del sanatorio, la parte del Maestro hassidico.

L’affascinante Steinmann è ispirato alla figura dello scrittore Y.L. Peretz, incontrato da Glatstein quando era ragazzo.

La seconda figura è un ragazzo sedicenne, appartenente ad una famiglia hassidica, il quale si domanda se sia possibile, per lui, aspirare al ruolo di Messia. Invita Yash a casa sua per presentargli la famiglia e mostrargli i propri scritti. Personaggio sorprendente per la febbrile ansia di conoscere tutto il conoscibile e portare a compimento l’opera divina. Pagine di profonda suggestione. Tutte da leggere, che non si possono riassumere. Infine, c’è una terza figura, un coetaneo del protagonista, “laico” e disincantato; l’ebreo acculturato, che vive in città. Neifeld, così si chiama, è un avvocato che mette Yash a parte delle relazioni tra polacchi ed ebrei. “Respiri profondamente” gli dice in occasione di una memorabile escursione nella foresta “i boschi polacchi sono in grado di curare il cuore più malato”.

Anche nel secondo libro il posto di ritrovo è,  rileva Wisse, scenario simbolico di una civiltà in crisi e, come in Mann, l’estraneo subisce il magico richiamo del luogo che è venuto a visitare.

Là il grande scrittore tedesco mette in luce “l’incurabile infezione latente all’interno della grandezza europea”, qui Glatstein evidenzia con dolore la profonda vitalità della comunità degli Ebrei europei, purtroppo condannata a morte.

Consapevole di questo gravissimo pericolo, ritornato in Patria, Jacob Glatstein riprende la puntuale attività di denuncia dei crimini perpetrati contro gli Ebrei d’Europa e dei pericoli mortali che li sovrastano, nell’indifferenza dei governi, sia europei che statunitensi, e nella mancata presa di coscienza degli stessi Ebrei americani verso la tragedia cui il mondo stava andando incontro.

Nihil sub sole novi, si direbbe. Con la differenza che, oggi, grazie al cielo, esiste lo Stato di Israele, proprio per questo boicottato da chi (ebreo o non ebreo, poco conta) dovrebbe nutrire profonda gratitudine nei suoi riguardi.

 

Titoli originali yiddish: Ven Yash iz geforn; Ven Yash iz gekumen.

Titolo originale della traduzione inglese: The Glatstein Chronicles 2010, Fund for the Translation of Jewish Literature and National Yiddish Book Center; 2010, Yale University Press per l’introduzione e le note Traduttrici: varie; Ed. Giuntina, collana Diaspora, Giugno 2017, pp. 470, € 20,00 (ebook € 12,99)

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