LibriLa sventura di un uomo giusto
di Elena Lattes
Molto spesso, davanti alle sofferenze di questo mondo, viene spontaneo porsi la domanda più semplice: “perché?” e cercare di trovare la risposta delle sventure nelle azioni compiute. Una “logica retributiva”, che non funziona e ha odore di idolatria. Questa è la tesi di Luigino Bruni, professore ordinario di Economia politica all’Università Lumsa di Roma, espressa in “La sventura di un uomo giusto” pubblicato da EDB, Edizioni Dehoniane. Per spiegare la sua concezione, l’autore prende spunto da Giobbe, ripercorrendone la storia. Emblematico personaggio della Bibbia ebraica e più precisamente del libro di Agiografi, di cui fanno parte, fra gli altri, anche l’Ecclesiaste e il Cantico dei Cantici, Giobbe è un uomo “integro e retto, temente del Signore e lontano dal male”, benestante, “il più facoltoso di tutti i figli dei paesi d’Oriente” e padre di sette ragazzi e tre ragazze. Improvvisamente egli perde i suoi averi e le sue ricchezze in un crescendo di disgrazie che sembrano non avere fine: prima, tutti i suoi animali vengono uccisi, poi crolla la casa del figlio maggiore dove si erano riuniti i dieci fratelli che muoiono sotto le macerie. Infine, come se questo non bastasse, egli viene colpito dalla lebbra e, a causa di questa, la moglie e gli amici lo abbandonano moralmente. Nonostante questo Giobbe non maledice mai il Signore, al contrario di quel che Satana aveva ipotizzato davanti a Dio nella sfida che Gli aveva lanciato. Lo sventurato non abbandona la “retta via” e di fronte alle accuse degli “amici” che gli suggeriscono di cercare nelle sue azioni l’origine delle sue disgrazie, si rifiuta di pentirsi di mali non commessi e chiama in giudizio il Signore stesso.
Bruni si concentra sulle reazioni di Giobbe e su quelle degli “amici”, analizzandone i dialoghi e offrendo una chiave di lettura di stampo cattolico ma che tende a riallacciarsi alla realtà universale. Egli sostiene che “davanti a una sventura vera, sono di poco aiuto i princìpi etici e i valori sui quali avevamo costruito la nostra morale nei tempi della prosperità”. Per questo gli interlocutori di Giobbe, che in fondo si rivelano essere poco amici, perché egoisti e impietosi, non confortano il malcapitato. Essi non parlano con cognizione di causa perché loro non vivono le stesse disgrazie di Giobbe, continuano ad essere benestanti e si rifiutano di mettersi nei suoi panni, accusandolo di essersi meritato le sue sventure. Così facendo, spiega l’autore, credono di difendere Dio, ma invitano l’amico a mentire, ad abbandonare la sua dignità e la fiducia in se stesso, a considerare il Signore un essere vendicativo e irascibile. In poche parole, Lo banalizzano riducendolo ad un semplice “contabile che assegna i beni agli uomini in base ai loro meriti”. Giobbe, al contrario, non formula risposte apparentemente facili, ma si limita a chiedere una giustizia che non riesce a scorgere. Quando vede che non ottiene risposte, poiché perfino il Signore tace davanti alle sue sofferenze, cerca un Dio “più profondo e vero di quello che aveva imparato da giovane”. Alla fine egli riotterrà quanto aveva perso e morirà in serenità. Bruni sostiene che questa conclusione è il desiderio umano di trovare sempre il lieto fine. Conclusione che però spesso purtroppo non trova riscontro nella realtà, poiché: “gli innocenti continuano a morire, i bambini a soffrire, il dolore dei poveri a essere quello più grande che la terra conosca”. Il Giobbe vero, “amico degli uomini, solidale con ogni creatura e con ogni vittima, è quello che si ferma un passo prima dell’epilogo”. Nessuno ha le risposte giuste alle sofferenze di questo mondo; noi siamo esseri limitati a cui non spetta “scrivere il nostro finale” e dobbiamo essere aperti a qualunque eventualità, poiché “se c’è un Dio della vita deve essere il Dio del non-ancora”. Tutto ciò che abbiamo è gratuito, la nostra vita, i nostri sentimenti, le nostre facoltà non sono “strumentali” e “utilitaristici”.
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