LibriC'è posto per un solo amore
di Mara Marantonio
“Io ho l’incrocio….Senza l’incrocio, che cosa mi rimarrebbe?” “…gli occhi della ragazza erano la sola cosa rimasta di lui”
Una storia ricca di spunti, originalissima ci propone Kalanit W. Ochayon, scrittrice israeliana della quale Giuntina pubblica il romanzo d’esordio, “C’è posto per un solo amore”, già uscito in Francia, nel 2013, con l’Editore Albin Michel.
Nata nel 1973, Kalanit è docente di Filosofia all’Università di Haifa e vive con la famiglia (marito e due figli) nel kibbutz Ayelet Hashachar, nord d’Israele.
Questa, come detto, è la sua opera prima. Mentre sta per uscire in Israele una serie di novelle per bambini, l’Autrice è al lavoro sul secondo romanzo.
Nel presente libro non siamo di fronte ad un racconto epico, con preciso ambiente storico/politico, bensì ad una sinfonia composta da tre voci di donne che si alternano nella narrazione. Esse rappresentano tre diverse età della vita. Naomi è sessantenne; Tamar, sulla quarantina, mentre Sasha ha poco più di vent’anni.
Il testo, dopo un avvio all’apparenza sconclusionato, acquista forza e spessore. E’ da leggere con calma e pazienza per apprezzarlo al meglio, perché è profondo nel suo indagare tra le pieghe dell’animo umano.
Il linguaggio fresco, semplice è ricco di ironia e suggestione, espresso in una prosa -resa molto bene dal traduttore Shulim Vogelmann- per così dire “spezzata”. Le testimonianze delle tre protagoniste infatti si avvicendano spontanee su un ideale palcoscenico. Una via l’altra, per intenderci.
Siamo di fronte ad un mondo bizzarro solo in apparenza, ma con dinamiche ben riscontrabili nella nostra vita quotidiana. Non vi trovi nulla di Israele quale di solito i lettori se lo immaginano, specie coloro che conoscono il Paese in modo superficiale: qui zero attentati; zero contrasti religiosi / laici; le tensioni interne (talora esagerate dai media) restano fuori della porta, così come il conflitto permanente col mondo arabo/musulmano. E’ l’Israele della periferia cittadina; potrebbe ricordare David Grossman di “Qualcuno con cui correre”.
Al massimo si incappa in una manifestazione i cui partecipanti, anzi le partecipanti, indossano una maglietta rossa, manifestazione che si scopre poi non essere così pacifica come in un primo momento sembrerebbe. Essa peraltro verte su problemi bioetici, dibattuti pure in altri nazioni occidentali.
E non mancano le sorprese. Anzi, ad un certo punto, l’esposizione assume perfino i colori di un thriller in piena regola.
Ma vi è pure spazio per l’amore: sempre drammatico, talora inaspettato perché lo scopri sbocciare nel luogo in cui meno te lo aspetteresti.
Le interpreti principali. Ecco la più anziana, come detto, Naomi. Scarpe consumate, anzi ormai senza suola, percorre ogni giorno a piedi, in compagnia del paziente cane Luka, la strada che unisce Haifa ad Acco, raggiungendo da anni il medesimo incrocio; QUELL’incrocio.
Scatta il rosso, al semaforo: un giovane ne approfitta per allungare, fuori dal finestrino, alla donna una moneta da cinque shekalim; mentre un ragazzetto a bordo di uno scuolabus le tira un panino sulla testa e, per sovrammercato, ride a crepapelle. Un’altra donna, a sua volta ferma in coda, osserva perplessa la scena. A Naomi danno fastidio non tanto i panini in testa, quanto gli sguardi del prossimo, mai all’insegna della solidarietà. Ella è alla ricerca disperata di una spiegazione al dramma che la tormenta da parecchi anni.
Raggiunge quindi la fermata del bus. Si siede ed attende. Sasha, la bellissima ragazza (russa di origine) accanto a lei, si alza subito; ma non per insofferenza verso quello strano personaggio munito di cane, dall’aspetto non certo lindo; bensì perché trova intollerabile una certa scritta volgare leggibile proprio lì davanti: inconsciamente la ritiene diretta a lei. Una vettura si accosta: è guidata dal capufficio di Sasha, Iggy; la giovane sale a bordo e pare dimenticarsi di quello strano, fulmineo incontro. Anche se la sconosciuta, sulla quale si era brevemente concentrata la sua attenzione, ha per Sasha qualcosa di familiare. Se n’è resa conto nell’istante in cui i loro sguardi si sono incrociati. La ragazza trova una forte somiglianza tra la sconosciuta e una donna ritratta in una foto che Iggy ha nel suo ufficio.
Ma non appena ella glielo fa notare, l’uomo nega deciso. Anzi, poco dopo, asporta l’immagine; ma Sasha, insospettita per il duro rifiuto di lui, era riuscita a prevenire le conseguenze della manovra. Di nascosto, infatti, aveva staccato poco prima la foto dalla parete e l’aveva fotocopiata.
Anche la stessa Sasha è alle prese con un delicato problema personale: si chiama Marina, la sorella sfrontata che si guadagna da vivere come spogliarellista ed ha una “storia” con un tipo tanto macho quanto inaffidabile, Julio; o Jorge, che dir si voglia.
La strada di Naomi si incrocia anche con quella di un’altra persona in automobile. Si tratta di Tamar, cioè colei che, ferma in coda all’incrocio, aveva assistito alla penosa scena del lancio del panino. Tamar vede, da anni, sempre alla stessa ora, quella donna attempata in movimento lungo il bordo della strada. Strano però che oggi, anziché camminare, si sia fermata, come in attesa di qualcosa o qualcuno.
Senza un motivo plausibile, invita a salire lo strano personaggio a bordo della propria vettura. Gialla, in coerenza con la passione per quel colore. E, rivolta a ideali spettatori, riflette ad alta voce: “…certe volte le persone fanno cose che non si possono comprendere……Ma il fatto che voi non abbiate una spiegazione non fa sì che queste persone siano da considerare matte”.
La conduce a casa sua. L’anziana donna porta in sé qualcosa di misterioso che ella intende scoprire. Non mancheranno le sorprese. Tamar, impiegata in un negozio, con un datore di lavoro, Zadka, uomo meschino e privo di scrupoli, è, come dire, un po’ cleptomane, tendente per lo più ad autogiustificarsi per le sue piccole malefatte. Si comprende subito che è tipo tormentato. Nel suo passato c’è una vicenda tragica. Tanti anni prima, la sorella maggiore Atalia, di sette anni, era scomparsa nel nulla, sulla spiaggia davanti a casa. Era bastato un attimo di disattenzione del padre, che l’aveva in custodia, e la piccola era sparita. Tamar, all’epoca, era appena nata e dunque l’evento non lo aveva vissuto se non attraverso i racconti di vicini, conoscenti, estranei. In casa non se ne parlava mai; ma questa vicenda tragica aveva sconvolto l’esistenza di tutta la famiglia, isolandola dal resto del mondo, perché nessuno l’aveva sostenuta; men che mai le persone più vicine, pronte, come sovente succede, solo a giudicare e condannare gl’improvvidi genitori.
In ogni donna ancor giovane che incontra, Tamar crede di vedere Atalia. Dalle sue parole si accorgiamo di quanto ella sia persona insicura, fragile, condizionata da quella tragica vicenda.
Qual è invece il segreto di Naomi e del suo peregrinare sulla strada? Un quindicennio prima, l’adorato figlio Amos era morto, proprio a “quell’incrocio”, in un terrificante incidente motociclistico.
E lei voleva, doveva, comprendere come mai era potuto accadere un fatto del genere. Così, giunta sul luogo fatale, non trovando spiegazioni plausibili al tremendo interrogativo, aveva proseguito la sua strada, passo dopo passo, cartello dopo cartello. Metro dopo metro, chilometro dopo chilometro. Alla ricerca di una soluzione, all’apparenza inesistente. Fino a dimenticarsi, man mano che il tempo trascorreva, di tutto il resto: casa, lavoro, adempimenti quotidiani. Nessuno l’aveva aiutata. Era riuscita a collezionare solo ostilità e sarcasmo, riducendosi a vivere come una “barbona”, in un tugurio. L’esistenza difficile e solitaria l’aveva indurita e resa, al di là di ingannevoli apparenze, più attenta al mondo circostante; capace, grazie ad un acquisito “sesto senso”, sia di fiutare il pericolo; sia di leggere nell’anima delle persone.
Un giorno remoto un uomo saggio le aveva detto: “…Hai un cuore piccolo, nel tuo cuore c’è posto per un solo amore….Sei una donna di valore…grandi forze risiedono ancora in te”. Ma quanto tempo era passato da allora!
Naomi riflette sulla propria vita, a partire dall’incontro con il giovane che avrebbe sposato, al quale era poi mancato l’amore di comprenderla e la forza di aspettare che il bambino, tanto desiderato da entrambi, si affacciasse alla vita. Egli, ironia della sorte, l’aveva abbandonata proprio quando la gravidanza si era felicemente instaurata; ma lei si era ben guardata dal rincorrerlo, preferendo crescere da sola il piccolo, Amos.
In Amos aveva finito per concentrarsi tutta la sua vita; ma ben presto il ragazzo si era allontanato da lei, incapace di spiegargli come mai, lui, al contrario degli amici e compagni di scuola, non avesse accanto un papà; un papà della cui esistenza in vita era peraltro convinto. Quanti segreti serbava il ragazzo nel suo cuore e quanto rancore verso la mamma!
I personaggi maschili del nostro romanzo appaiono per lo più come persone mediocri: ad esempio Iggy (ma dovremo ricrederci su di lui,), o Zadka (il datore di lavoro di Tamar), oppure lo stesso marito di Naomi: “Un bel ragazzo. Un ragazzo brillante. Una lingua tagliente come una lama”, che però l’abbandona perché lei non riesce a restare incinta. E’ un uomo che non intende né rischiare, né lottare, né amare in modo maturo.
O magari sono degl’incoscienti: come il padre di Tamar, responsabile per la sparizione della piccola Atalia; senza contare l’assurdo genitore di Sasha e Marina, il quale, giunto in Israele dalla Russia tanti anni prima, non aveva nemmeno compiuto nel tempo lo sforzo d’imparare un ebraico decente; in compenso, però, mandava in porto affari non proprio limpidi. E per soprammercato, nell’approssimarsi dell’ultima ora….
Il lettore ripercorrerà via via le strade intraprese da queste tre figure femminili, piene certo di contrasti e difetti, ma pure di calda umanità. Strade che, all’inizio, paiono incrociarsi per caso, ma che in realtà sono legate da un filo conduttore che indurrà ognuna a fare i conti con se stessa, con drammi, passati e presenti, per trovare, chissà, la forza di dare un significato alla propria esistenza.
Il finale resta aperto sul futuro, all’insegna di una certa ironia frammista ad amarezza.
In Kalanit Ochayon, come in diversi scrittori israeliani delle ultime generazioni, c’è predilezione per le storie private, i rapporti familiari, i contrasti di coppia. Il contesto generale resta sullo sfondo ed entra in gioco se non per precisare il luogo in cui la vicenda si svolge; nel caso nostro, la città di Haifa.
Israele infatti -coi suoi drammi, legati ad una guerra senza fine, ma pure con l’incredibile, prorompente vitalità- non è percepito quale attore principale; a parte, appunto, qualche riferimento geografico.
Le tematiche personali quindi non sono filtrate dai fatti politici. La nostra vicenda non sembrerebbe avere i connotati di una storia ebraica, a parte l’umorismo che emerge qua e là; ma devi andartelo a scoprire. Certo è che, nel pensare ad un film ispirato al romanzo, mi sono venuti subito in mente i fratelli Coen, Joel ed Ethan.
Sono convinta che ne amerebbero la trama dal sapore dolce-amaro e sarebbero capaci di trarne una delle loro irresistibili pellicole, magari con Frances Mc Dormand (nella vita moglie di Joel), perfetta Naomi; così come il padre di Sasha e Marina ha le fattezze e lo spirito di George Clooney, attore cult degli arguti fratelli registi originari del Minnesota.
Il gioco ad incastro dei vari momenti è l’aspetto più intrigante della vicenda e, a mio parere, non ha nulla di artificioso. Il mutamento di ambientazione è sovente veloce come una pallina da ping pong; a volte faticoso da seguire, ma sempre coinvolgente. L’attenzione di chi legge è tenuta desta ad ogni pagina.
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