Libri"Tramonto libico. Storia di un ebreo arabo" di Raphael Luzon
di Mara Marantonio
“…ma da quella zona adibita a macelleria kasher a cielo aperto non proveniva violenza, né immagini disgustose, ma un sottile senso di speranza, di fede e di eternità, il senso infinito della presenza del nostro Dio"
Ancora il testo di un Autore, figura di confine, che riunisce, nei contesti drammatici del proprio vissuto, l’esperienza ebraica e l’esperienza araba.
E’ scrittore vivace ed attento Raphael Luzon, nato a Bengasi in Libia nel 1954 -dunque in un Paese musulmano- da famiglia ebraica della media borghesia, educato in Patria presso scuole religiose cattoliche, laureato all’Università di Roma, già giornalista RAI; ora residente a Londra.
Nel libro autobiografico “Tramonto libico -Storia di un ebreo arabo”, uscito il mese scorso con Giuntina, egli racconta, insieme alla propria storia personale, quella della Comunità ebraica di Libia. Una comunità ancora più antica di quella romana, perché sorta nel periodo tra il Primo (586 a.C.) e il Secondo Tempio (70 e.v.), quindi assai prima dell’avvento di Maometto, accresciutasi nel corso dei secoli, anche a seguito dell’espulsione degli Ebrei dalla Spagna, decretata dai Re cattolici nel 1492. Una minoranza parlante un linguaggio misto arabo-ebraico, infarcito più tardi, come precisa l’Autore, di termini italiani; minoranza che, nel corso del tempo, aveva contribuito col suo lavoro al progresso economico, sociale e culturale del Paese, pur essendo soggetta alla nota legislazione del dhimmi, in uso presso tutti i Paesi islamici, che relegava (e relega tuttora, sarà bene ricordarlo) i non musulmani -in questo caso gli Ebrei- allo stato di cittadini di seconda classe.
La vicenda narrata nel libro inizia a giugno 1967, quando l’imprevista vittoria israeliana nella cosiddetta “Guerra dei Sei Giorni” è il pretesto, da parte delle autorità musulmane, per scatenare, a Tripoli e Bengasi, un tremendo pogrom contro la Comunità ebraica. Il tredicenne Raphael, come possiamo leggere nelle prime pagine, percepisce ben presto il clima ostile che si va creando intorno attorno ai correligionari fin da un mese prima della Guerra, a inizio maggio. Infatti, di lì a pochi giorni, l’odio esplode. Le folle si abbandonano ai linciaggi, alle uccisioni indiscriminate (tra cui quella del cugino omonimo Raffaele, detto Feli, e di altri parenti), i negozi ebraici vengono dati alle fiamme, in una Kristallnacht mediorientale. La famiglia è costretta con dolore a lasciare tutto e a fuggire verso l’Italia, dapprima trovando una temporanea sistemazione a Capua in un campo profughi, indi, dopo un passaggio da Napoli, a Roma. Trauma non indifferente, come leggiamo con emozione. Cambiamento radicale in poche ore: da un contesto di agiatezza -il padre aveva fondato in Libia una florida azienda che importava prodotti farmaceutici- ad un campo per rifugiati dove, dopo un viaggio notturno, ai nuovi arrivati è servita, al mattino, un’immangiabile brodaglia, con dentro le mosche (!). ”Il nostro amato padre” confida Raphael “non riuscì ad accettare di essere diventato un profugo”. Che differenza con certi attuali profughi “di mestiere”!
Ma anche la nuova esistenza a Roma si rivela assai problematica. I genitori faticano ad inserirsi nella nuova città e Raphael vive un rapporto conflittuale con i giovani ebrei romani che vedono in lui un estraneo; e non un correligionario che ha patito gravi sofferenze, da accogliere con affetto.
Pian piano si va formando nel protagonista -e in coloro che condividono la sua esperienza- una sorta di memoria comune, striata di dolore, ma frammentata. C’è chi resta legato al passato e non accetta di guardare avanti; ci sono coloro i quali, al contrario, rompono i ponti con l’esistenza precedente e non intendono neppure sentir parlare di Libia. C’è invece chi, come l’Autore, vuole costruirsi una vita nuova, peraltro accompagnato dalla “necessità vitale di non abbandonare quel mondo, di rivendicare i nostri diritti, la nostra giustizia, la nostra verità”. Non tardano per lui i successi negli studi, culminati nella laurea in Scienze Politiche (benvenuto, Collega!) e l’amore. Questo giunge con Fiammetta, incontrata ad una festa in casa di un’amica comune. Ragazza ricca di fascino, energia (conosce molto bene Israele), desiderosa di “assaggiare ogni cosa del mondo……..e splendido senso dell’umorismo”. Un giusto risarcimento per lui dopo tante sofferenze. Gioioso matrimonio e, poco dopo, lei resta incinta. Nasce una bambina, Gaia. Purtroppo Fiammetta viene colpita da un tumore incurabile che la rapisce alla famiglia proprio allo scadere del secondo anno di matrimonio. Prima di spegnersi, però, la ragazza riesce a strappare al marito una promessa: allevare la loro piccola nella Terra dei Padri. Raphael matura così la decisione di compiere l’aliyah. Padre e Figlia raggiungono la nuova Patria, con difficoltà inevitabili, assistono, nel tempo, a eventi tragici come l’assassinio di Itzchak Rabin, ma vivono pure gioie intime e profonde: “…mi dicevano ‘buongiorno’ per strada e sorridevo di felicità per quella parola rivolta a me in ebraico”, cioè Boker Tov. E un nuovo incontro. Grazie a Rav Amar, un rabbino saggio che sa parlare al cuore delle persone, cieco -particolare emblematico!-, il protagonista conosce Hana, donna “forte, solida, serena, sorridente”. I due si sposano dando vita ad un’unione felice: Hana è una vera seconda madre per Gaia. Seguono anni di intensa attività di giornalista che il lettore seguirà con interesse e che mi limito a riassumere in breve.
La collaborazione con la Rai e, a seguire, la realizzazione, insieme ad altri colleghi, di Jubillenium, il cui obiettivo era “la conoscenza reciproca delle religioni monoteiste e il rinsaldamento dei rapporti tra esse in vista del Giubileo del 2000”. Un’occasione di nuove esperienze e conoscenze, in primo luogo quella del Pontefice allora regnante, Giovanni Paolo II. A tale proposito c’è un aneddoto da far conoscere a quei cattolici -purtroppo numerosi- regolarmente colti da itterizia alla sola prospettiva di pronunciare l’espressione: “Stato di Israele”; essi infatti preferiscono imperterriti il termine “Terra Santa” oppure, i più….militanti, “Palestina”.
L’inizio del nuovo secolo si rivela duro per tutti gli israeliani a causa della cosiddetta Seconda Intifadah: la conseguente crisi economica induce la famiglia Luzon a trasferirsi in Gran Bretagna.
Qui prende avvio l’impegno politico di Raphael volto a riallacciare i rapporti tra l’Ebraismo libico e lo Stato, dominato allora da Muhammar Gheddafi. Tale impegno gli comporterà gravi rischi: egli metterà a repentaglio la propria vita sia ritornando nel Paese d’origine durante il regime del Raiss, sia dopo la caduta di questi, allorché, nel luglio 2012, a seguito di un altro viaggio, verrà arrestato dalle milizie islamiche al potere con l’accusa di essere un agente del Mossad!
L’attività di Raphael Luzon in questa direzione di incontro e di pace tuttavia non comporta soste.
Nel presente mémoire scritto in una prosa scorrevole, avvincente l’A. ci fa conoscere in modo perspicuo, insieme alla propria esperienza di vita, una realtà, quella degli Ebrei espulsi a più riprese dai Paesi Arabi, relegata per decenni in un cono d’ombra e tornata alla luce solo in tempi recenti. Espulsione, come egli evidenzia, che non solo ha prodotto dolori e tragedie nei perseguitati, ma ha comportato miserie morali, culturali, economiche nei contesti all’interno dei quali è stata attuata. Ciò sia di memoria attuale per le nazioni europee, sensibili di nuovo più che mai alle sirene dell’antisemitismo.
Preziose, oltre alle belle foto in calce al testo, sono le pagine “in corsivo” narranti l’esistenza quotidiana nella Libia tanto amata, in cui sono illustrate antiche tradizioni, come quella, assai suggestiva, del “Gallo espiatorio”, vissuta nella notte precedente Kippur. Raccontare la Storia per preservare la Memoria. Non nutre risentimenti il protagonista, ma, anche alla luce degl’insegnamenti dell’amico di famiglia Raffaello Fellah, figura chiave nel suo percorso umano e politico, l’obiettivo che lo anima -e che lo ha sempre animato- è la riconciliazione tra la Libia e i suoi Ebrei, riconciliazione passante necessariamente attraverso la verità e la giustizia.
“Questa aspirazione, frustrante e dolorosa perché di difficile realizzazione, accompagna tutte le parole del libro perché è come un macigno nell’anima chi stava scrivendo”.
Così Roberto Saviano nell’illuminante prefazione, dove invita il lettore a non lasciarsi ingannare dalla facilità del testo per “passare oltre”, ma a tenere il volume un po’ di tempo nelle mani per riflettere sui suoi contenuti. Ancora una volta lo scrittore napoletano non delude. Nelle intense pagine che precedono il testo di Luzon, egli svolge un’accurata analisi sulla tragedia degli Ebrei cacciati dai Paesi arabi col pretesto della nascita dello Stato di Israele. Com’è nel suo stile di “fare nomi e cognomi”, Saviano fornisce cifre, puntualizza eventi e circostanze, senza distinguo, né infingimenti, né interessate falsificazioni; con onestà intellettuale che vediamo rara in persone di cultura europea allorché entrano in scena tematiche quali “Arabi”, “Stato di Israele”, “Ebrei”.
Illuminante la conclusione, in cui Roberto riprende le parole idealmente rivolte da Raphael ai connazionali libici di fede musulmana: “Forse, se non aveste cacciato i vostri fratelli ebrei tanto tempo fa, forse oggi la Libia non sarebbe il cumulo di sofferenze che sta diventando, forse….”.
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