LibriLa famiglia Karnowsky di Israel Joshua Singer
di Mara Marantonio
“Come si dice, l’ebreo è impuro, ma i suoi soldi sono kasher” (Solomon Burak)
A settant’anni dall’uscita a New York in lingua originale (yiddish, poiché il testo in inglese apparve assai più tardi), finalmente, grazie alla Casa Editrice Adelphi e alla vissuta traduzione di Anna Linda Callow, anche il pubblico italiano può conoscere ed amare questo romanzo, davvero un cuneo che l’autore “con la penna insinua nella chiusa personalità dei lettori”, secondo un’efficace affermazione di Elias Canetti. “La Famiglia Karnowski” di Israel Joshua Singer è un’opera / mondo nella quale ci si avventura seguendo svariati percorsi e tematiche -uno per tutti: l’antisemitismo europeo nelle sue diverse forme e sfumature-; un’affascinante, drammatica rappresentazione di tre generazioni di Ebrei: dalla natìa, tradizionale Polonia di fine Ottocento alla moderna Berlino, dapprima della, sia pur ingannevole, integrazione, indi del nazismo; fino alla durissima New York della salvezza e dell’esilio; nella perenne ricerca di un equilibrio, molto difficile e sofferto da realizzarsi, tra identità ed assimilazione. La lettura è scorrevole, coinvolgente, anche perché inserita in un ambito storico ben preciso; infatti il volume è pure un prezioso documento di notevole valore storico per ricostruire la vita delle comunità ebraiche distrutte dalla “follìa” nazista.
Indispensabile un inquadramento, sia pur sintetico, dell’Autore nell’ambito, in primo luogo, del suo contesto familiare. “Dedico queste pagine alla memoria del mio defunto fratello, I.J. Singer…Egli era per me non soltanto il fratello maggiore, ma anche un padre spirituale e veramente un maestro di vita. Io guardo a lui come a un modello di grande spiritualità e di probità letteraria”. Con tali parole l’insigne Autore polacco, naturalizzato statunitense, scrittore in lingua yiddish, Isaac Bashevis Singer (1902/1991), Premio Nobel per la letteratura 1978, dedica il suo “La Famiglia Moskat” (1950) al fratello maggiore di undici anni, Israel Joshua, nato nel 1893 e morto d’infarto a cinquantun’anni.
Davvero una famiglia eccezionale, i Singer. I genitori, il Rabbino (e autore di commentari) Pinchas Meindl Zinger e Basheva Zylberman, a sua volta figlia di un rabbino hassidico di Bilgoraj, ebbero quattro figli: la primogenita, Esther, fu valente scrittrice a sua volta, ma misconosciuta dall’ambiente tradizionale che la voleva sacrificata, in quanto donna, nelle sue aspirazioni culturali; seguivano tre maschi, Israel Joshua, Isaac Bashevis -in omaggio alla madre, appunto Basheva- e Moshe, l’unico non scrittore, morto nel 1946.
Dopo i primi anni di vita e l’adolescenza passate nel quartiere popolare ebraico di Varsavia dove il padre teneva il suo tribunale rabbinico, Israel, considerato a lungo il “genio di famiglia”, aveva lasciato quell’ambiente tradizionale ed abbracciato la Haskalah, l’Illuminismo ebraico. In patria aveva pure studiato pittura, ma ben presto sentì nascere in sé la vocazione letteraria. Nel 1918, suggestionato dalla Rivoluzione bolscevica, si recò in Russia, dove aderì ad un gruppo di scrittori radicali yiddish, il cosiddetto Circolo di Kiev, e cominciò a pubblicare i primi racconti. Disgustato per il perdurante antisemitismo, che sperava fosse scomparso grazie alla nuova situazione politica, tre anni dopo ritornò a Varsavia, dove continuò la sua attività letteraria e iniziò a collaborare con “Forward”, il celebre quotidiano yiddish di New York. Sulle colonne del giornale apparvero articoli assai critici verso l’Unione Sovietica, che gli valsero l’ostilità dell’ambiente comunista cui aveva in precedenza aderito. Decise allora di partire per gli USA, dove, alcuni anni dopo, arrivò il fratello minore Isaac (il quale, a sua volta, iniziò a scrivere per Forward). Una meritata fama lo raggiunse. Non a caso, tanti anni dopo, l’illustre critico letterario statunitense Harold Bloom, in un’intervista datata 2009, ha dichiarato che, tra i due fratelli Singer, il più dotato non è il Premio Nobel Isaac, ma il meno noto, al contemporaneo pubblico dei lettori, Israel Joshua
Purtroppo, proprio all’indomani dell’uscita de “La Famiglia Karnowski”, Israel morì all’improvviso. Per le paradossali vicende dell’esistenza egli entrerà in una sorta di cono d’ombra, mentre inizierà l’ascesa del fratello minore.
Occorre tener presente un aspetto nell’opera di Israel J. Singer. Egli non ci parla direttamente della Shoah perché si spegne prima che essa sia conosciuta nella sua completezza; ma ne ha un’intuizione, rendendocela così -forse- ancora più terribile. Quel vuoto, quel “non detto”, quei riferimenti a “laggiù” ti toccano il cuore.
Il nostro romanzo è suddiviso in tre parti, ciascuna dedicata ad un personaggio della famiglia, colui intorno al quale ruota il racconto: David; Georg; Jegor.
Indimenticabile l’inizio che inquadra i Karnowski “della grande Polonia”, affidabili -pur non facoltosi- commercianti di legname, studiosi di Talmud e di altri sacri testi; nonché di materie profane, quali la filosofia e la matematica, ed affamati lettori di libri in lingua tedesca.
Personaggi liberi, ben consapevoli delle loro qualità, ai quali sta stretto l’ambiente religioso ed ultratradizionale dello “shtetl” di Melnitz. E infatti il polemico rampollo di casa, David, “raffinato purista della grammatica ebraica”, ben presto prende l’irrevocabile decisione di andarsene, con la giovane moglie Lea, da quel luogo di “selvaggi e bifolchi” verso la patria della ragione e dei lumi, la città che, fin da adolescente, lo aveva attratto in modo irresistibile, cioè Berlino. L’Autore ha arricchito questo personaggio con diversi aspetti della propria esperienza giovanile. Nella nuova patria David si ambienta molto bene: parla un perfetto tedesco, ha successo nell’attività commerciale, diviene una figura di rilievo in città e, grazie alla sua cultura, stringe rapporti, anche istituzionali, con la migliore società ebraica, radicata nel Paese da molte generazioni. Nulla a che vedere con gl’immigrati dall’Est Europa, quelle persone che si ostinano a parlare yiddish e non sanno esprimersi in corretto tedesco. Allorché alla coppia nasce un figlio, gli vengono imposti due nomi: Moshe, in memoria di Moses Mendelssohn, il fondatore della Haskalah, ma pure il nome con il quale sarebbe stato chiamato, nel giorno del bar mitzvah (la maggiore età religiosa ebraica, all’età di tredici anni), a leggere il testo sacro in sinagoga; e Georg, il nome tedesco, a ricordo di quello del nonno paterno (Gershom), da usare nella vita quotidiana. Tutto questo in omaggio all’aurea massima, ribadita il giorno della circoncisione del piccolo: “Sii ebreo a casa tua, ma un uomo [cioè un tedesco, in nulla diverso dagli altri] quando ne esci”.
Se David ha trovato la sua strada, non si può dire altrettanto di Lea. La giovane si sente una straniera in un contesto tanto diverso da quello in cui è cresciuta, cioè l’ambiente caldo, familiare di Melnitz, lasciato così a malincuore. Ella si consola parlando con il figlioletto nell’idioma di casa, chiamandolo col diminutivo di Moysele; anche se, ben presto, questi impara a correggerla stizzito: “Io non sono Moysele, sono Georg!”.
Ma soprattutto fonte di gioia per Lea sono le visite che ella compie, allorché gli affari spingono David lontano da casa, all’Emporio delle Occasioni di Solomon Burak, posto a poca distanza dallo Scheunenviertel, la zona abitata da ebrei galiziani e polacchi. Solomon, chiamato Shloymele dalla moglie Ita, è, a sua volta, un immigrato da Melnitz, abbandonata da giovanissimo, diversi anni prima, per andare a fare il venditore ambulante nei paesini tedeschi, con un fagotto di mercanzia appresso. Ma, al contrario di Karnowski, non ha affatto rinnegato le proprie origini, ci mancherebbe! Il negozietto dell’inizio sulla Linienstraße è stato rimpiazzato dall’enorme magazzino dove Burak concentra le ingenti quantità di merci che acquista a basso costo: articoli di fine serie, giacenze dopo fallimenti o incendi, tutto ciò che è a buon mercato. Ottiene credito dalla banche, in quanto operatore affidabile. La clientela è costituita per lo più da gentili, attratti dai prezzi convenienti, ma anche da quegli ebrei, residenti nel Paese da tanto tempo, i quali peraltro non gradiscono affatto che si rammenti loro, tra un acquisto e l’altro, donde vengono. Il Sig. Burak, peraltro, sa benissimo che i goym, alla fin fine, in cuor loro, detestano tutti gli ebrei, indipendentemente dal numero di anni di residenza sul suolo tedesco, dalle apparenze, dal linguaggio forbito. Georg cresce secondo i desideri paterni; ma, nonostante l’impegno di David, i coetanei vedono in lui soprattutto l’ebreo, a cominciare da coloro che risiedono nello stesso palazzo, tutti “gentili”. Il ragazzo matura nel tempo una volontà di ferro e, dopo la prima giovinezza scioperata e un inizio inconcludente di studi filosofici, si iscrive alla Facoltà di Medicina. In parte per vocazione sincera, in parte per spirito di concorrenza verso la prima (e forse unica) passione amorosa della sua vita: Elsa Landau, affascinante dottoressa, figlia di un medico vegetariano convinto, un tipo bizzarro, di nome Fritz, ma di gran cuore e competenza, tutto dedito ai suoi pazienti del quartiere operaio di Neukölln; unico ebreo tra goym privi di pregiudizi e colmi di gratitudine per lui. Padre e figlia formano un duo affiatato, spesso in polemica, ma legati da profondo affetto. Anche la bella Elsa dalla lunga chioma rossa è attratta da Georg, ma è tutta concentrata dapprima sulle ricerche mediche, indi divorata dal demone dell’ambizione politica. Diventa ben presto deputata di sinistra al Reichstag, è inseguita dalla stampa; e, per motivi opposti, dagli avversari politici conservatori, i quali non sopportano che una donna -per di più giovane, di gradevole aspetto e per giunta ebrea- occupi un posto di riguardo. E, col passare del tempo, altri nemici, ben più pericolosi, cercheranno di insidiarla. Non c’è quindi posto, nella vita di lei, per un marito ed una famiglia.
Benché articolato secondo una linea maschile, il romanzo ci dona pure stupende figure femminili; Elsa è tra queste, così come, per motivi diversi, Lea, simbolo della tenerezza ostinata.
Allorché scoppia il primo conflitto mondiale Georg si arruola, quale medico militare, sul fronte orientale e si batte con coraggio, come tanti ebrei, ai quali, negli anni successivi, la patria volgerà le spalle col più atroce dei tradimenti. I terribili ricordi dei campi di battaglia resteranno impressi nel giovane per sempre.
Il dopoguerra segna la rapida affermazione professionale del Dr. Karnowski, il quale diventa, in pochi anni, il più famoso ginecologo di Berlino, direttore di una rinomata clinica sulla Kaiser Allee. In ospedale conosce una timida e sensibile infermiera, Teresa Holbek; attratto dalla sua dolcezza e dedizione, Georg incomincia a frequentarla con assiduità. Ciò porta non poco trambusto nelle rispettive famiglie d’origine: gli Holbek sono cristiani, con un’opinione negativa nei confronti degli Ebrei. David Karnowski, dal canto suo, è fuori di sé. Per quanto integrato nella società tedesca, è per lui inconcepibile che il primogenito esca con una…shikse, termine dispregiativo yiddish per “non ebrea”. Georg non intende ragione e sposa Teresa, rompendo i ponti col padre (ma la madre non lo abbandona). Teresa è una specie di Lea in versione cristiana. La moglie tradizionale, che tuttavia, all’occorrenza, sa essere forte e decisa.
Ma sotto la cenere dell’apparenza spumeggiante e spensierata, tipica della Repubblica di Weimar, cova un fuoco che porterà a tragiche conseguenze. La crisi postbellica del 1922/1924 e la tremenda inflazione che seguì alla chiusura degli stabilimenti della Ruhr; il fallito putsch nazista di Monaco del novembre 1923, conclusosi con l’arresto di Adolf Hitler -che, in carcere, scrive il suo programma politico, cioè il “Mein Kampf”-; l’uscita dalla prigione dopo soli nove mesi (in realtà era stato condannato a cinque anni di detenzione), la trionfale, irresistibile ascesa nel periodo successivo, delle camicie brune e del loro indiscusso capo. Senza contare l’altra, indimenticata, crisi finanziaria, quella del 1929. Tempi bui si preparano per gli Ebrei. In modo inesorabile, lento, ma non troppo, si moltiplicano le violenze e le aggressioni ai loro danni. Singer dipinge con colori foschi e con frasi efficacissime quel clima di “tensione indefinita…un misto di attesa, esaltazione, paura, quando gli uomini in stivali [i nazisti, è chiaro] s’impadronirono delle strade e delle piazze”.
Tanti, tra gli Ebrei, specie coloro che risiedono in Germania da secoli, cercano di non dare importanza a ciò che sta accadendo, ritengono (o fanno finta di ritenere) che queste agghiaccianti novità non riguardi loro, integrati da sempre nel tessuto sociale; ma l’angoscia e il terrore sono palpabili ovunque. Paradossi dell’esistenza, fa notare a David un anziano e coltissimo libraio, Efraim Walder, una delle poche persone residenti sulla Dragonerstraße, il luogo dove vivono in prevalenza gl’immigrati dall’Est, cui egli si degni di far visita: “…volevamo essere ebrei in casa e uomini in strada, è arrivata la vita e ha messo tutto sottosopra: siamo goym [lett.: gentili, cioè non ebrei] in casa ed ebrei in strada”.
A queste gravi preoccupazioni se ne aggiunge un’altra per Georg e Teresa, non meno dolorosa. Dal loro matrimonio è nato un figlio, chiamato Georg -come il padre- Joachim -dal nome del defunto nonno materno-, detto ben presto Jegor.
Fin dalla più tenera età il ragazzo subisce l’influenza della famiglia della madre, dove, da una parte, la nonna gli propina, forse quasi senza rendersene conto, i triti luoghi comuni dell’antigiudaismo cristiano; dall’altra, con rara perfidia, lo zio Hugo, fratello di Teresa, un debosciato fanatico di uniformi, marce e quant’altro (sedicente valoroso soldato nella guerra che ha visto la Germania sconfitta dai “traditori”), sostenitore dei nuovi padroni del Paese, gli fa un vero e proprio lavaggio del cervello, instillandogli odio antisemita, che porta Jegor, sensibilissimo e psicologicamente instabile come molti coetanei, a rifiutare la parte ebraica di sé. Rifiuto che, per assurdo (ma è un’assurdità apparente, se ci si pensa bene), tocca il culmine allorché egli viene denudato a forza su un podio, nel teatro della sua scuola, di fronte, non solo ai compagni di classe, ma a tutti gli studenti, al corpo insegnante ed altre autorità, poiché il preside, l’ottuso Prof. Kirchenmeyer, decide di mostrarlo come modello vivente delle nuove teorie razziali, come espressione del “cattivo influsso della razza negro-semitica su quella nordica quando si uniscono”. Jegor ne esce traumatizzato. Conseguenza devastante e, come detto, all’apparenza incomprensibile: odio irrefrenabile verso il padre e tutti gli Ebrei, unito ad un’attrazione fatale nei confronti degli uomini che marciano, marciano, tanti cari a suo zio.
Anche a causa di tale tragica situazione, per togliere i congiunti da quell’aria ammorbata che sta per ucciderli nell’anima e nel corpo, Georg si dà da fare per ottenere, a sé e ai suoi, un visto di espatrio, finché ciò è possibile. Destinazione: gli USA. Nella speranza che, al di là dell’oceano, il figlio ritrovi se stesso.
La terza parte del libro, dedicata a Jegor, è, a mio parere, la più avvincente, anche se, confesso, talvolta ho avuto la tentazione di interromperne la lettura, tanto quelle pagine grondano sofferenza. Se si ha però l’animo di proseguire e giungere alla fine, ci si rende conto quanto “La Famiglia Karnowski” sia un autentico romanzo di formazione, anzitutto per il lettore.
Inoltre non mancano notizie di carattere storico/politico a proposito della diffusione nel mondo della piovra nazista, che riusciva a raggiungere con i suoi tentacoli anche i Paesi democratici.
Lascio quindi a chi legge la sorpresa di scoprire pian piano questo “viaggio di conversione” in America dei Karnowski, insolita, profonda “Teshuvah” (in ebraico, letteralmente, "Ritorno"), che tocca, secondo corde diverse, i membri della Famiglia, anche in un rapporto rinnovato proprio con quelle persone che, nella precedente esistenza di “laggiù”, erano state trattate con freddezza ed alterigia.
Ma è il giovanissimo Karnowski il perno della vicenda. Dopo una discesa agl’inferi, che è quanto di più orribile ed inimmaginabile si possa concepire, ha il coraggio di riprendersi la propria umanità, sia pure a prezzo di un gesto estremo. Commoventi le pagine finali, Padre e Figlio che si ritrovano. Saranno la Speranza e la Vita a vincere, dopo la disperazione e la morte del dolore.
(Titolo originale Di mishpohe Karnovski, 1943)
Trad. Anna Linda Callow, Adelphi Ed., collana Biblioteca Adelphi, 2013, pp. 498, €.20
11 commenti
- da sonia de conti Ho da poco terminato questo bellissimo libro e anch'io nella terza parte ho fatto fatica a continuare perchè troppo presa dal pathos delle pagine, dalle difficoltà del giovane Jegor. Ho fatto fatica anche al'inizio con David per una certa antipatia nei suoi confronti, ma non avrei mai potuto abbandonare davvero il libro proprio perchè la forza dei sentimenti che suscitava era proporzionale alla profondità di scrittura
- da Renato Follador E' un libro favoloso. Oltre allo sfondo storico, che con pochi tratti ci racconta fatti complessi, è la descrizione dei caratteri. Con poche parole rende l'idea della complessità delle persone e dei rapporti interpersonali. Prende molto, da molti punti di vista.
- da Maria Teresa Dolso Romanzo straordinario, come molto raramente capita di leggerne e, al contempo, documento profondamente significativo di un momento storico drammatico!
- da Mario Salvetti Semplicemente un capolavoro.
- da Marco leonardi autentico capolavoro! un romanzo storico che narra con grande intensità vicende praticamente contemporanee alla scrittura . ritmo degno diun grande romanzo ottocentesco
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da Daniela Abd el Fattah
letto tutto di un fiato.
quoto rispettosamente questa frase, che ben rispecchia il dilemma dei tedeschi di fede o origine mosaica negli anni della 1 e 2 guerra mondiale
«La vita è una burlona, rabbi Karnowski, ama giocarci qualche tiro mancino. Volevamo essere ebrei in casa e uomini in strada, è arrivata la vita e ha messo tutto sottosopra: siamo goyim in casa ed ebrei in strada».
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da Daniela Abd el Fattah
letto tutto di un fiato.
quoto rispettosamente questa frase, che ben rispecchia il dilemma dei tedeschi di fede o origine mosaica negli anni della 1 e 2 guerra mondiale
«La vita è una burlona, rabbi Karnowski, ama giocarci qualche tiro mancino. Volevamo essere ebrei in casa e uomini in strada, è arrivata la vita e ha messo tutto sottosopra: siamo goyim in casa ed ebrei in strada».
- da Nadia Cristiano Libro coinvolgente,profondo, tragico e commovente.
- da Nadia Cristiano Libro coinvolgente,profondo, tragico e commovente.
- da stefania petronio Romanzo stupendo! Sto leggendo tutti i romanzi pubblicati dallo stesso autore.Da consigliare.
- da Donatella Rosselli Romanzo straordinario, ti resta addosso come pochi. Forse ancor più adesso, a distanza di decenni, quando oramai sappiamo bene che l'esito terribile della persecuzione antisemita fu la Shoah... l'autore non l'ha conosciuta ma il presagio della catastrofe c'è tutto... Impressionante anche il fatto che non si menzioni mai apertamente il nazismo o Hitler, ma si parli di inquietanti "uomini in stivali" e di "nuovi padroni della Germania". Da leggere assolutamente.
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