CronacaIsraele e la modernità
Che ancor oggi, alla fine del primo decennio del terzo millennio, l'ebraismo rappresenti una forza viva e costitutiva del nostro mondo, è un fatto innegabile. La sua importanza attuale è certo maggiore di quella che aveva la religione d'Israele quando animava gli annuali pellegrinaggi al Tempio degli ebrei provenienti da ogni parte, di quella che aveva quando gli ebrei difendevano il loro monoteismo e il loro particolarismo religioso contro i greci e i romani, fino alla distruzione del Tempio e alla Diaspora del Settanta: la dispersione definitiva dalla terra d'Israele, quella imposta con la forza dai romani per distruggere la religione che si era ribellata all'Imperatore in nome di un Dio senza volto e senza statua. Un'importanza, infine, di gran lunga superiore a quando la nuova religione propugnata dal Cristo, un ebreo, e riproposta da un altro ebreo, Paolo di Tarso, dilagando fra i gentili, sembrava aver vinto l'ebraismo riducendolo all'ombra di se stesso. Ma non era così, e la Sinagoga sconfitta, che il cristianesimo vincitore si rappresentava accasciata e accecata, si sarebbe con lo scorrere del tempo rialzata strappandosi la benda dagli occhi.Dalla sconfitta di Israele era nato un ebraismo sradicato dalla terra ma con radici ancora più forti nello spirito, nei testi, nella parola. Curiosa sorte, questa, di una religione che trae linfa e spinta alla trasformazione da una sconfitta radicale, dall'esilio, dalla dispersione, fin dalle persecuzioni. Un destino tanto anomalo, da aver posto nella storia mille interrogativi sulle ragioni della sua sopravvivenza, della sua continuità, in modi e con forze diverse, senza mai scomparire, senza mai essere assimilata o distrutta, attraverso le ondate di conversioni, i massacri, i ghetti, fino alla Shoah. Un mistero, la mano di Dio nella storia? o più laicamente un percorso umano e terreno particolare, il risultato di una storia, quindi, anche se di una storia in cui l'immagine di Dio, lo spirito del monoteismo, si fa principio ispiratore, si incarna in una società dispersa, in una modalità di vita di minoranza fra le nazioni. In molta parte della diaspora, quella più occidentale, l'ebraismo di queste minoranze disperse, lungi dal sopravvivere come un residuo isolato e chiuso, spargeva nella società cristiana suggestioni e semi preziosi di cultura, assimilando e trasformando al suo interno le altrettanto preziose influenze che gli venivano dal mondo esterno. Si trasformava, nonostante le innegabili continuità con il passato, rielaborandosi creativamente nella storia e nella permanenza tra le nazioni, una capacità questa che è ragione non ultima della sua sopravvivenza. Animava infine lo stesso sionismo, l'ideologia del ritorno alla terra d'Israele. Raggiunta l'uguaglianza nell'età della secolarizzazione, l'ebraismo si proponeva alla società in modo diverso, informandola di una cultura a sua volta secolarizzata, che sembrava aver gettato alle ortiche le sue radici religiose: la grande cultura ebraica del primo Novecento, che trasformava in profondità l'Europa. Quanto dell'ebraismo restasse vivo in quella cultura era una domanda legittima, se ormai vecchio poteva domandarselo Freud, interrogandosi sul suo stesso ebraismo. Le continuità erano vive e vitali, sia pur nello stacco profondo, o quella grande esplosione culturale era il frutto unico e irripetibile di un taglio radicale con la tradizione? Una domanda a cui ancor oggi gli ebrei, contesi tra modernità e tradizione, trovano difficile dare una risposta.
(Anna Foa su Il Sole 24Ore)
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